la Repubblica, 4 marzo 2022
Ungaretti e il Nobel a Quasimodo
Una delle poesie più celebri di Giuseppe Ungaretti, I fiumi («Mi tengo a quest’albero mutilato…») il poeta la inviò a Giovanni Papini il 18 agosto 1916 in una forma leggermente diversa da quella poi definitivamente accolta nell’ Allegria. Mancano, per esempio, i due versi assai significativi «Questi sono i miei fiumi/contati nell’Isonzo». Tutti hanno nella memoria l’immagine di Ungaretti soldato della prima guerra mondiale, soldato semplice non troppo in salute e poi allievo ufficiale, e del resto le più celebri poesie, che sembrano scolpite nella pietra, parola per parola, nascono proprio in seguito a quell’esperienza. Ora un gran volume (di oltre mille pagine, Oscar Baobab, a cura di Francesca Bernardini Napoletano) consente di ripercorrere attraverso le lettere gli anni e i giorni e le ore di Ungaretti, che, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1888 sarebbe poi vissuto in Italia, ma anche in Francia e in Brasile, attraversando varie stagioni culturali e naturalmente politiche. È un carteggio internazionale (Ungaretti conosceva bene molti letterati francesi, da Apollinaire a Valéry) che va ripercorso con calma, come ha fatto la curatrice dividendolo in sezioni e firmando informatissimi saggi introduttivi. Proviamo a prelevare qualche “istantanea”. Ungaretti sostenne addirittura un duello con Massimo Bontempelli (che lo ferì leggermente al braccio destro) in seguito ad una polemica nata sul quotidiano Tevere. Il duello, cui seguì una riconciliazione, si tenne nel giardino della villa di Pirandello al quartiere Nomentano. I letterati si amavano e stimavano, quando non si assaltavano con le parole o con la spada in mano. Prima dello scontro con Bontempelli così Ungaretti scriveva il 13 agosto del ’26 a Giuseppe Raimondi: «Carissimo, avrai letto sui giornali come sono avvenute le cose. Incontro all’Aragno con Bontempelli. Mi viene incontro per colpirmi. Scambio furente di pugni e calci, tavoli rovesciati, tazze e bicchieri rotti, ecc. Invio dei padrini da parte mia…».
Scrivendo a Emilio Cecchi il 17 maggio 1926, dichiara subito senza mezzi termini: «Carissimo, siccome alcuni cattivi cercano di glorificare Saba per avvilirmi – tentativo assurdo come ogni atto di cattiveria – ti invio una lettera per mostrarti la cordialità delle nostre relazioni (…) Saba non ha grazia. Ma quella sua vena torbida, quella sua arte ch’è fatta d’involontaria, spesso efficacissima deformazione, lo mettono tra i tre o quattro scrittori di versi italiani d’oggi degni di ammirazione». E il 16 luglio del ’26 a Giuseppe Raimondi confida: «Il Signor Cardarelli, che ho fatto tradurre in francese, al quale ho fatto aprire le porte di Commerce, per il quale facevo l’altro giorno ancora un passo presso il Tevere perché non gli sopprimessero lo stipendio, pare sia andato parlando con disprezzo di te, di me, di Cecchi e di tutti…».
Ungaretti era molto attento al valore originale della sua poesia e non sopportava che lo si mettesse alla pari di altri poeti che considerava caso mai degli epigoni, anche se bisogna sempre fare la tara su certi giudizi a caldo, nati magari nel malumore di particolari frangenti. Verso la fine del gennaio ’37 Ungaretti scrive a Corrado Pavolini e a un certo punto dice che Montale adotta la sua metrica, «anche nei giuochi qualitativi della sillabazione. Sono cose di semplice giustizia. Ma la giustizia non è di questo mondo (…) E non parliamo di chi scrive la parodia della poesia d’Ungaretti, come un Quasimodo, e tanti altri. E, addirittura, un Quasimodo avrà lo stesso rango d’un Ungaretti, come un Montale, di cui ora quasi quasi si farà un mio maestro…».
Ungaretti aveva naturalmente desiderato vincere il Nobel e, per quel che poteva, si era anche dato da fare. Non vide il Nobel a Montale (assegnato nel 1975, quando lui, Ungaretti, era già morto da cinque anni) ma tutti e due, incontrandosi alla stazione di Milano ebbero modo di deridere, era il 1959, il Nobel assegnato a Quasimodo. Lo racconta Ungaretti a Pier Paolo Pasolini di cui è diventato amico e per cui ha testimoniato, sia pure per lettera, nel processo contro Ragazzi di vita.
Scrivendo a Vittorio Sereni l’8 febbraio 1960, accenna al Nobel così: «Il Poeta q/Nobel, sciagura nazionale, ora su un rotocalco chiama – quella bocca! –. chiama Cecchi “mulo”. Chi l’ha protetto avrà da scontare migliaia d’anni d’inferno e io perdono tutto, non la stupidità, non chi non sa distinguere il “vero” dall’“imitazione”». Per Quasimodo Nobel, che qui Ungaretti indica per spregio con la q minuscola, si erano spesi Carlo Bo e Francesco Flora, mentre Emilio Cecchi era stato critico.
Ungaretti, come si sa, aveva aderito al Manifesto degli intellettuali fascisti del 1925, ma i suoi rapporti con Mussolini datavano già da molto tempo. Nel lungo capitolo dedicato a questo periodo (“In viaggio attraverso il fascismo 1922-1947”) Francesca Bernardini ricostruisce nel dettaglio ciò che Ungaretti fece. Di fatto, scrive Bernardini, «si considerava e voleva assumere il ruolo di un intellettuale organico al Regime, di cui riteneva di poter indirizzare le scelte culturali», attraverso la creazione di riviste, ma anche portando la cultura italiana all’estero, favorendo le traduzioni e facendo conferenze. La sua fiducia in Mussolini, più che nel fascismo, non viene mai meno: «Sono il vostro milite» arriva a dirgli nel ’29. Ma a Mussolini e con grande deferenza, Ungaretti aveva chiesto addirittura una prefazione per la nuova edizione del Porto Sepolto. Era il 5 novembre del ’22. «Eccellenza – scrive Ungaretti – il mio amico Ettore Serra che ha curato a Sebenico una magnifica edizione su carta di Fiume degli scritti per la Dalmazia del Comandante, prepara ora un’edizione che sarà un miracolo d’arte tipografica delle mie migliori poesie di guerra e della mia recentissima opera. V.E. sa il mio valore di poeta…». E più avanti: «Ricorro a V.E. come a un signore della Rinascenza: quando l’Italia è stata grandissima nel mondo…».
Mussolini fece la prefazione e accolse anche la richiesta di udienza che Ungaretti aveva avanzato. Oggi quell’edizione è piuttosto rara, ma non introvabile e, dicono gli antiquari, può valere anche duemila euro. Fedele a Mussolini, Ungaretti fu però critico delle leggi razziali.
Sostenne un duello con Massimo Bontempelli che lo ferì leggermente al braccio destro in seguito ad una polemica nata sul quotidiano “Tevere”