La Stampa, 4 marzo 2022
Kerouac in India
C’è stato un tempo, ormai lontano e si suppone – almeno per alcuni – piuttosto felice, in cui si poteva arrivare in India in autostop da Roma o da Milano attraversando Turchia e Siria e Iraq e Persia e Afghanistan e Pakistan senza dover necessariamente incappare in fondamentalismi religiosi, conflitti tribali o bombardamenti più o meno locali. Nello zaino, col Siddharta di Hermann Hesse di cui ricorre il centenario della pubblicazione, trovavano posto almeno un paio di libri di Jack Kerouac. Naturalmente Sulla strada, e poi I vagabondi del Dharma: dove lo scrittore di origini franco-canadesi, nato a sua volta nel 1922 in una famiglia cattolica a Lowell, Massachusetts, oltre a trasfigurare nel romanzo se stesso e alcuni sodali della scena beat californiana, tra cui Allen Ginsberg e Neal Cassady, s’inoltrava a modo suo nelle teorie buddhiste e zen proprie di quelle culture asiatiche che all’epoca esercitavano tanto fascino su innumerevoli giovani occidentali, ansiosi di mettersi sulle tracce dei Beatles più che su quelle di Pasolini e di frequentare un corso di meditazione in un ashram, o almeno di imbattersi in un qualche guru alle pendici del Nepal o sulle spiagge di Goa. Tutto ciò, complici i disastri di questa nostra epoca miserabile, ha ormai assunto le sembianze di un sogno psichedelico; per rituffarsi nel quale è però possibile intraprendere un altro viaggio, da iniziarsi calandosi tra le pagine di Some of the Dharma, vero e proprio zibaldone kerouachiano scritto nell’attesa non breve che un editore si degnasse di prendere in considerazione il dattiloscritto di quello che sarebbe diventato il fortunatissimo romanzo che sappiamo. È il 1953. Dopo avere esordito tre anni prima con La città e la metropoli, Kerouac ha già scritto e riscritto Sulla strada, senza però trovare la via per la pubblicazione. La seconda grande carneficina del Novecento si è conclusa da meno di un decennio, la Guerra Fredda oggi protagonista di un grande revival è da poco cominciata e alla presidenza degli Usa c’è l’appena eletto Dwight D. Eisenhower, che abbastanza paradossalmente, da ex generale a quattro stelle, sarà il primo a denunciare il pericolo per la democrazia costituito dal cosiddetto complesso militare-industriale, anticipando di un soffio Stanley Kubrick e il Dottor Stranamore. In Kerouac, che nel 1943 è stato riformato in quanto «psicopatico costituzionale» e ha evitato Iwo Jima o la Normandia imbarcandosi nella marina mercantile, alberga una natura pacifista. E dopo il triennio turbolento in cui, tra New York, Los Angeles, San Francisco, Città del Messico, Rocky Mount, San José, di nuovo San Francisco e ancora New York si è sposato per poi divorziare nel giro di sei mesi, ha cercato nuovamente di imbarcarsi, è stato assunto come frenatore presso le ferrovie, le ha lasciate per fare visita a William Burroughs, è stato male per la morfina, è tornato da sua madre, ha rivisto Neal Cassady con cui si è scontrato e riappacificato, ecco che davanti ai suoi occhi si spalanca un territorio nuovo: quello del buddhismo. Così, per altri tre anni, Kerouac decide di esplorarlo, e scrive una sorta di diario con l’intenzione di farne dono a Ginsberg. Nel frattempo, ha messo a punto il suo metodo di scrittura spontanea ispirato ai ritmi del jazz, e le pagine che finiscono col dare forma a Some of the Dharma sono un continuo alternarsi di storie, poesie, note, preghiere, lettere, conversazioni: battute a macchina in modo assai accurato da un punto di vista grafico, tanto da richiamare alla mente certe sperimentazioni futuriste; materiale che di fatto diventa il serbatoio da cui attingere per scrivere il successivo I vagabondi del Dharma. Riprodotti fedelmente nella prima traduzione italiana a cura di Sara Barbera ed Emanuele Basile, i testi che compongono quest’opera fuori dal comune si susseguono a volte obliquamente, altre dando vita a forme circolari, altre ancora in veste di elenchi, in capitoli dove accanto a veri e propri haiku o ad annotazioni brevissime ("Tutte le cose SONO la natura-di-Buddha”, oppure “Sono un membro della GENERAZIONE BEATIFICA") troviamo brani assai più lunghi, o appunti che mescolano religione, filosofia, politica: “Il Buddhismo è un sistema di controllo della mente / il Tao è una filosofia senza regole disciplinari / Ma per questo il Tao può diventare Mao (Tse Tung”. Pubblicato in patria a quarant’anni di distanza dall’enorme successo di Sulla strada anche a causa della sua incoercibilità rispetto ai canoni dell’industria editoriale, nel corso del tempo Some of the Dharma ha saputo avvicinare alle filosofie orientali nuove generazioni di lettori, affascinate dai temi che percorrono tutta la produzione di Kerouac. A cominciare da quell’amore per la libertà che per l’autore si tradusse in un nomadismo bohémien dal sapore dionisiaco ma non privo di risvolti tragici, rivolta ante litteram contro la società dei consumi fondata sul debito e sul lavoro salariato dalle nove alle cinque: una rivolta per certi versi parallela a quella condotta qui da noi da un altro grande irregolare di cui ricorre il centenario, Luciano Bianciardi. Certo, agli occhi dei puristi l’approccio può sembrare quello di un neofita a tratti anche un filo borioso. Nel giro di un anno Kerouac – uomo non privo di contraddizioni, a cominciare dal conflitto tra bisogno di calore umano e desiderio di solitudine – in certe occasioni si atteggiava a illuminato, e c’è chi ha ipotizzato che il buddhismo rappresentasse per lui innanzitutto una facile via d’uscita dal dolore e dal disordine della vita che conduceva, col Nirvana eletto ad ancora di salvezza rispetto alle tentazioni della triade sex & drugs & alcohol. “Libero dalla nascita è libero dalla morte – Libero dall’oceano è libero dall’annegamento – Libero dalla morte è libero dalla rinascita”. O ancora: “Non avevo niente da fare prima di essere nato – Non devo fare niente adesso – Non avrò niente da fare dopo che sarò morto”. Quasi un testamento spirituale, lasciatoci da colui che per l’amico Ginsberg era “il nuovo Buddha della prosa americana”.