il Giornale, 4 marzo 2022
Dante Ferretti raccconta PPP a Hollywood
«Ci siamo sempre dati del lei, ma con Pasolini c’è stato un rapporto di collaborazione e amicizia che andava al di là di quella formalità. Gli devo la mia carriera. Pasolini è stato il mio faro». Lo scenografo Dante Ferretti è stato a Los Angeles per l’inaugurazione della mostra Conoscenza carnale: I film di Pier Paolo Pasolini (fino al 12 marzo) organizzata da Bernardo Rondeau nel nuovo museo dell’Academy costruito da Renzo Piano e inaugurato lo scorso settembre. Ferretti ha fatto ritorno nella capitale mondiale del cinema dieci anni dopo aver vinto, insieme alla moglie Francesca Lo Schiavo, il suo terzo Oscar per la scenografia di Hugo Cabret di Martin Scorsese, e venti anni dopo un’altra rassegna che lo vedeva protagonista. «Allora Cinecittà e l’Academy realizzarono una bellissima mostra dei miei disegni».
Vent’anni fa era già uno dei più richiesti scenografi al mondo, ma la sua carriera è iniziata molto prima, negli anni Sessanta, proprio con Pasolini.
«Ho iniziato a 17 anni, facendo l’assistente di Luigi Scaccianoce, bravissimo scenografo che però aveva l’abitudine di prendere più commesse insieme. Un giorno mi disse, dobbiamo fare un film con Pasolini a Matera. Era Il Vangelo secondo Matteo. Mi avvertì: guarda che ci sarò poco. Pasolini mi conobbe così, prima a chiedermi dov’era lo scenografo e poi a trattare direttamente con me. Così io, a poco a poco, cominciai a prendere qualche iniziativa personale».
Poi vennero Uccellacci e Uccellini con Totò e Ninetto Davoli, e L’Edipo Re.
«Stessa trafila. Lo scenografo ufficiale era Scaccianoce ma sul set c’ero quasi sempre solo io e così mi sono conquistato la sua fiducia».
E quella di Fellini.
«Scaccianoce fu chiamato per il Satyricon e io fui di nuovo ingaggiato come assistente. Scaccianoce in questo caso c’era sul set ma litigò con Fellini, che invece mi prese in simpatia, mi chiamava Dantino».
Poi venne il suo primo film da titolare, fu Pasolini in persona a chiamarla, per Medea.
«Stavo per andare al mare con un amico. Uscii di casa ma tornai indietro perché avevo scordato qualcosa. Squillò il telefono. Pasolini mi voleva subito sul set di Medea, in Cappadocia. Invece di andare al mare volai a Istanbul e da lì raggiunsi il set».
Dove c’erano Pasolini e la Callas.
«Pasolini mi disse: fra quattro ore c’è in programma questa scena con la Callas, su un carretto. Ma il carretto non esisteva e io avevo quattro ore per inventarmi qualcosa. Chiesi aiuto a tutti quelli che conoscevo sul set. Mi portarono della stoffa, del cuoio. Alla fine il famoso carretto era pronto, un’ora prima di girare».
Fu l’inizio di una folgorante carriera che fra gli anni Ottanta e Novanta assunse un rilievo internazionale.
«Fui chiamato da Jean-Jacques Annaud per Il Nome della Rosa. Poi da Terry Gilliam per Le avventure del Barone di Munchausen».
E poi da Martin Scorsese, Neil Jordan, Tim Burton e negli anni del 2000 arrivò la consacrazione agli Oscar. Nel 2005 per The Aviator di Scorsese, nel 2008 per Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street di Burton, e nel 2012 per Hugo.
«Abbiamo sei statuette su una mensola dell’Ikea, tre mie e tre di mia moglie Francesca (Lo Schiavo, set decorator, ndr). Insieme a cinque Bafta, altrettanti David di Donatello, 14 nastri d’argento. Nessuno però mi ha ancora premiato con un milione di dollari, ora lancio un appello».
A proposito di Oscar, cosa ne pensa di È stata la mano di Dio di Sorrentino?
«Mi è piaciuto moltissimo, a me Sorrentino piace molto e quel film mi ricorda la mia infanzia a Macerata, nelle Marche. Anche io sognavo di fare cinema, non sapevo cosa avrei potuto fare, però. Fu un amico scultore a suggerirmi la scenografia. Così feci l’Accademia di Belle arti a Roma e poi iniziai a fare pratica sui set».
Con Pasolini girò in tutto nove film compreso l’ultimo, Salò o le 120 giornate di Sodoma, la cui première si svolse dopo la sua morte.
«Girammo vicino a Parma, in una grande cascina dove avevamo ricostruito tutti gli interni. Poi Pasolini tornò a Roma per fare vedere il suo film e quella notte, in quella spiaggia di Fiumicino, successe quel che successe. Lo seppi la mattina dopo, ero con Elio Petri, passeggiavamo sul Lungotevere quando, passando davanti a un bar apprendemmo della sua morte, da una televisione accesa. Andammo all’obitorio e l’avvocato della famiglia di Pasolini mi chiese di andare sul posto con un metro per prendere le misure sulla scena del delitto. Lo feci, fu dura».