il Giornale, 4 marzo 2022
Boccaccio social
Per le persone, diventare un aggettivo non è buon segno. A parte il fatto che spesso ciò accade dopo che si è morti, c’è sempre il rischio di venire etichettati come qualcosa che si è stati (o si è) soltanto in parte o, peggio, che proprio non si è stati (o non si è). Quando poi la persona in questione ha a che fare con l’arte, va anche peggio, perché la parzialità e i malintesi degli etichettatori vengono aggravati dalla cassa di risonanza degli emuli. I quali possono agire anche a secoli di distanza. Prendiamo Boccaccio, diventato «boccaccesco» nonostante sia stato poco «boccaccesco». O, addirittura, non lo sia per nulla stato. Perché «boccaccesco» sta per: «Di fatti e situazioni che ricordano alcune novelle licenziose del Decameron», come riporta il Vocabolario Treccani.
Eppure, sentite qua: «Tanto la vicenda dei dieci giovani quanto quelle degli erranti (cioè dei personaggi delle novelle, ndr) espongono insomma al massimo grado il messaggio centrale, ancorché raffinatamente coperto, del Decameron: il conseguimento di un compiutamente realizzato modello di decorum civile. Sia detto per inciso, ciò nulla toglie alla trascinante forza comica del libro, da affidare, entro quel privilegiato disegno, all’aristotelico istituto dell’eutrapelia. Semplicemente, e senza regredire all’impraticabile proposta di individuare un percorso ascensionale nelle novelle, si tratta di leggere il Decameron in ottica medioevale: tenendo cioè ben in mente che, se il cortex ludico resta sempre in vista, la medulla, la tensione verso una comunità di concordia sociale, celata da quella scorza piacevole, resiste a ogni reductio ad unum del libro». Lo scrive Renzo Bragantini in Il Decameron e il Medioevo rivoluzionario di Boccaccio (Carocci, pagg. 213, euro 19), riportando il Certaldese alla sua autentica dimensione di boccacciano, e mettendo in un angolo ogni caricatura «boccaccesca». Perché, ad esempio, come definire se non «caricatura» quel sottogenere della commedia italiana scollacciata anni Settanta detto dei «film decamerotici»? Beninteso, Bragantini non intende ripulire il Decameron delle componenti licenziose, bensì, semplicemente, spiegarlo, riportandolo nell’alveo del Trecento, dove sta benissimo accanto a Dante e Petrarca e, anzi, ne diviene un inveramento sociale, persino social, se consideriamo le 100 narrazioni come storie da diffondere e condividere... Secondo l’autore, «il Decameron va letto per avere un’idea concreta della ricchezza della civiltà letteraria del tardo Medioevo, che accosta, insieme all’impareggiabile disegno della Commedia e all’esemplare lirico per eccellenza del Canzoniere, un testo che di essi in qualche misura si nutre, ma che da essi per altri versi radicalmente differisce. Ciò avviene perché nel libro novellistico vengono proposti molti degli assilli intellettuali, religiosi, politici, morali, di quei due culmini, e allo stesso tempo se ne sceneggiano gli esiti nella vita quotidiana, se ne ferializzano, per così dire, i picchi problematici, mettendoli a confronto con la dimensione ineludibile dell’evento; il che in fondo non è che l’altra faccia della democrazia stilistica del capolavoro di Boccaccio. Insieme alla ferializzazione va segnalato un altro stigma caratterizzante il Decameron, che si può definire come tendenza al celamento».
Dunque, che cosa fa Boccaccio nel Decameron? Prima individua i temi (dalle varie declinazioni dell’amore all’amicizia, dalle questioni di pecunia all’amministrazione della giustizia e via catalogando nei suoi faldoni mentali), facendoli indossare come abiti di scena ai tipi umani della società del suo tempo: il commerciante, il monaco, il contadino, il nobile, l’usuraio, il... proto-proletario delle metropoli trecentesche Firenze e Napoli. Poi apparecchia la fiction della novella, infilandovi, il più delle volte di soppiatto, nascondendola e «polverizzandola», come dice Bragantini, la fonte cui si è ispirato. E qui il campionario è amplissimo: Amores, Tristia e Remedia amoris di Ovidio, Metamorfosi di Apuleio, la Storia dei sette sapienti, Il libro di Kalila e Dimna di Ibn al-Muqaffa’, Storia di Barlaam e Josaphat, cioè la vita cristianizzata del Buddha, Legenda aurea di Iacopo da Varazze, le Satire di Giovenale, Ab urbe condita di Livio, il quarto Sermone per l’Ascensione di San Bernardo e il De tranquillitate animi di Seneca, il santo laico della latinità. Come si vede, di «boccaccesco» c’è ben poco.