ItaliaOggi, 4 marzo 2022
Sesso triturato nel dizionario
È divenuta una costante: più ancora che sui giornali, essa domina nella rete sociale. La questione è lineare, almeno in apparenza: viene posto il problema del femminile nella grammatica. Guarda un po’ dove va a cacciarsi una faccenda che finisce col rendere popolare la norma grammaticale o la ribellione a essa.
Si spazia dalle denominazioni femminili per posti prima di esclusiva o quasi prevalenza maschile, fino all’impressionante diffusione di finali plurigeneri. Tali sono la -u, e pazienza, ma altri si rivelano impronunciabili come l’asterisco (*) o lo scevà, inesistente nell’italiano e rappresentabile soltanto ricorrendo all’alfabetico fonetico internazionale, con una -e- capovolta (). Fra i tanti interventi ricordiamo Giulio Mainardi, che ha sintetizzato alcuni pareri, non tutti condivisibili, in Lingua italiana e questioni di genere, che esce presso Reverdito.
Si giudica oggi in maniera negativa, verrebbe da sostenere col sostegno della maggioranza fra chi parla o scrive, il ricorso all’articolo per una donna: la Casellati, la Taverna, la Lamorgese non andrebbero bene. Si direbbe che sia riconosciuta «una connotazione negativa al fatto stesso di essere donna, che l’articolo manifesta. Il segno distintivo del femminile (l’articolo) non va bene; il segno distintivo del maschile (l’assenza dell’articolo) invece va bene». Il fatto non trova giustificazione, se non la smania di un pareggiamento feroce. Se ci si batte non per il femminismo e ancor meno il maschilismo, allora nella lingua si dovrebbe difendere più il diritto alla specificità che l’ambizione a differenze ridotte, ove siano ovviamente tolte quelle discriminatorie.
La grammatica insegna un fatto elementare: per gli uomini esiste un maschile e per le donne un femminile. Però sono ben noti e tranquillamente usati «termini che, per ragioni etimologiche, hanno solo la forma maschile o femminile indipendentemente dal fatto che si riferiscano a uomini o donne». Si possono citare, per il femminile, birba, burba, controfigura, comparsa, guardia, guida, maschera (intendendo l’inserviente in teatro), matricola, recluta, sentinella, spia, staffetta, vedetta e vittima; per il maschile, contralto, genio, mezzosoprano, ostaggio e soprano. È soltanto questione di tempi e di orecchio: il femminile per molte attività sarà normalmente accolto, salvo beninteso da chi preferisca, pur donna, essere ordinario in una disciplina universitaria o segretario in un’associazione, laddove la voce al femminile segretaria la svilirebbe di ruolo, come fosse una cameriera.
Una condizione peculiare dipende dalla circostanza, da parecchi contestata, che nella lingua italiana «il genere grammaticale maschile ha la funzione di rappresentare il genere reale neutro o misto o indeterminato», laddove «il genere grammaticale femminile indica invece lo stesso genere reale».
È il fenomeno che il grande linguista Roman Jakobson indica come «uso non marcato» di uno dei membri di un’opposizione. A suo avviso, il significato generale di una categoria marcata consiste nell’affermare la presenza di una certa proprietà A. Il significato generale della categoria non marcata corrispondente è usato per segnalare l’assenza di A.
Il maschile non marcato è individuabile già nei primi articoli della Costituzione «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale», «l’effettiva partecipazione dei lavoratori». Inserire una distinzione marcata («Tutti i cittadini e tutte le cittadine», «l’effettiva partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici») appesantirebbe il testo fino a renderlo illeggibile e incomprensibile.
Pensiamo alle beatitudini di Cristo, che la distorta lettura del Vangelo di Matteo ridurrebbe in adattamenti come questi: «Beati e beate i poveri e le povere in spirito … Beati gli afflitti e beate le afflitte perché saranno consolati e consolate … Beati i e beate le miti … Beati i misericordiosi e beate le misericordiose». Se chi legge comprende, com’era normale sino a pochi anni addietro, la funzione del maschile non marcato, non è costretto ad accomodamenti sgradevoli o a ricorrere a scevà e simili baggianate, fra cui non manca la chiocciola (@), che, come rileva il presidente della Crusca, Claudio Marazzini, spezzano «il rapporto tra lingua scritta e lingua parlata».