il venerdì, 3 marzo 2022
Biografia di Stefano Coletta raccontata da lui stesso
«Vietato lamentarsi» recita la targhetta alle spalle della poltrona dell’uomo più potente della tv italiana. Quando affiora dalla stanza 543, quinto piano di viale Mazzini, il direttore di Rai1, Stefano Coletta, 56 anni, si scusa per il ritardo di tre minuti. In pochi lo conoscono tra il grande pubblico, ma è stato l’artefice del Sanremo dei record. Il bacio anti sfiga di Amadeus, imposto da Fiorello sul palco dell’Ariston, ha portato bene anche a lui.
Coletta, lei passa per un intellettuale prestato alla tv.
"Non sono né intellettuale, né colto, ma semplicemente uno a cui piacciono i libri. Vengo dalla gavetta e ho sempre lavorato tantissimo, spinto dalle radici semplici e dallo spirito di sacrificio dei miei, abruzzesi di Roio del Sangro".
Quando era direttore di Rai3 l’hanno paragonata ad Angelo Guglielmi.
"Anche qui non sono d’accordo. L’unica comunanza è la formazione letteraria, mi sono laureato con una tesi su Saba e il matricidio, ma Guglielmi è stato un genio televisivo che ha inventato da zero marchi che sono sopravvissuti fino ai giorni nostri".
Cosa chiedono gli italiani alla tv?
"Una narrazione. Da direttore di Rai3 cercai di costruire la rete come un romanzo popolare. Bisogna parlare a tutti, ma questo intento pop deve essere profondo, carico di senso, occorre unire radici di memoria e di futuro".
Per esempio?
"Sono appassionato alle vite comuni delle persone. Una delle prime trasmissioni che mi inventai fu Non ho l’età. Raccontava gli amori tardivi, quelli degli anziani. Mi avevano sempre detto che i vecchi non amano vedersi raccontati. Venni perciò sconsigliato a procedere. Corsi il rischio e andò benissimo".
Come lo spiega?
"Erano storie di speranza, che rivelavano che la vita può sempre sorprenderti. E anche i più giovani rimasero affascinati dall’elemento dell’imprevedibilità: quelle passioni parlavano anche a loro".
La sua idea di servizio pubblico?
"La parola chiave è inclusione dentro il racconto del Paese reale. Per me anche Ballando con le stelle deve essere espressione del tempo che viviamo. Con Milly Carlucci, che è una professionista caparbia, ci siamo divertiti a costruire un format dove tutti questi elementi fossero presenti".
Confesso che non ho mai visto Ballando con le stelle.
"Guardi che si può trovare della poetica anche in Tale e quale show di Carlo Conti".
Quindi il suo mantra è il nazionalpopolare intelligente?
"Mi piace l’idea della contaminazione dei generi. Ho voluto che si parlasse di libri ad Oggi è un altro giorno, alle 14 su Rai1, un’ora in cui in genere prevale l’intrattenimento leggero. E così quel pubblico ha imparato a conoscere Benedetta Craveri ed Emanuele Trevi intervistati da Serena Bortone".
E funziona?
"Altroché. A volte abbiamo raggiunto il 18 per cento di share".
Quindi c’è una domanda di cose profonde?
"L’ho capito con le lezioni di Massimo Recalcati che ho voluto a Rai3. Sono stato il primo a portare la psicoanalisi in televisione".
Cosa le ha rivelato il boom di Sanremo?
"Abbiamo azzeccato la voglia di vivere un evento collettivo dopo due anni di pandemia: anche questo è servizio pubblico ma soprattutto, grazie al lavoro di Amadeus, abbiamo intercettato tutte le generazioni, a partire da quelle più giovani".
Quando le ho telefonato l’altro giorno mi ha detto: "Sono contento per Sanremo, ma certo la felicità è un’altra cosa".
"Glielo dice uno che ha consacrato la vita al lavoro. È un buon periodo, faccio quel che desidero, non solo per dovere".
Com’è diventato direttore Rai?
"Non pensavo di diventarlo. Sono qui da trent’anni: programmista, autore, capostruttura, vicedirettore al palinsesto. Poi, cinque anni fa, dopo l’abbandono di Daria Bignardi, Mario Orfeo mi promosse direttore di Rai3".
Com’era entrato?
"Nel luglio del 1991. Una mia amica, che lavorava a Radio2, mi disse che cercavano dei giovani da inserire nella struttura della prosa radiofonica. Mandai il mio curriculum alla responsabile Lidia Motta. Mi convocò nel suo ufficio, in via Asiago, e mi esaminò per tre ore".
Tre ore?
"Sì, una lunga chiacchierata sulle mie aspirazioni. Il giorno stesso mi chiamarono dalla Rai proponendomi un contratto di tre mesi alla redazione di Chiamate Roma 3131. Avevo 26 anni".
Niente raccomandazioni, quindi?
"Mai avute".
È vero che contò una zia, la segretaria di Gianni Letta?
"Ho scoperto dai giornali di avere una nuova zia. Fa sempre piacere l’agnizione familiare. Peccato non sia vero. Lina Coletta è figlia come me di due roiesi. Si chiama Coletta, come tanti in paese, dove sono tutti imparentati, ma tra noi la parentela non c’è".
La Rai non è il regno della politica?
"Sì, ma la politica sa anche riconoscere la competenza e l’onestà di chi ci lavora".
Quindi lei fu assunto giovanissimo?
"No, no. Prima mi sorbii dieci anni di contratti a termine: e lì ogni volta ti devi sudare il rinnovo. Per arrotondare facevo supplenze di italiano e latino nei licei: quindi ero doppiamente precario. L’esperienza più formativa si rivelò in un istituto privato".
Quale?
"Il Nazareno, vicino a piazza di Spagna. Mi chiamò padre Rossi, era il 1994, portai una classe alla maturità. È il liceo dei vip, vi avevano studiato Carlo Verdone e Christian De Sica. Ero severissimo e appassionato, quello è un lavoro che mi sarebbe piaciuto fare per tutta la vita".
Perché scelse la Rai?
"Anche per un fatto di guadagno. Nel 2001 la brava capostruttura Lucia Restivo mi propose finalmente l’assunzione. Avevo 35 anni".
Che cosa voleva fare da ragazzo?
"Lo psicoanalista. Sono stato in analisi dai 25 anni ai 30, col professor Mayer. Rappresentò anche una grande formazione culturale. Penso che Freud andrebbe insegnato nelle scuole".
Un approccio che applica anche al lavoro?
"Se vado al ristorante in gruppo, dopo un po’ mi disconnetto e comincio ad origliare i discorsi del tavolo accanto. Ho una predisposizione genetica all’ascolto".
In che famiglia è cresciuto?
"Papà era chef all’ambasciata inglese. Mamma maestra d’asilo, dopo la nascita di mio fratello, alla fine degli anni 50, si dedicò a noi. Si conobbero in paese e poi emigrarono a Roma".
La piccola borghesia del boom.
"Quella. Mai avuto problemi economici, ma io e mio fratello fummo invitati a laurearci in fretta. Abitavamo nel quartiere Africano. Roma, negli anni Settanta, era infestata dal terrorismo, dalla violenza politica, circolava moltissima droga. Mia madre ne era terrorizzata. Era ossessiva nel controllo".
Che liceo ha frequentato?
"L’Archimede, quello di Valerio Verbano, il giovane militante di sinistra ucciso nel 1980".
L’ha conosciuto?
"Non personalmente, io ero in 1A e lui in 5 A. Ricordo però il senso di morte che ci avvolse e che ci impedì per giorni di andare a scuola".
Faceva politica?
"Mi piacevano di più i libri"
E quali sono i libri della sua vita?
"A 15 anni mi ha folgorato La storia di Elsa Morante, per la rappresentazione animale dell’uomo. Poi scoprii Il male oscuro di Giuseppe Berto. E, nascosto tra le cose di mio fratello, trovai Porci con ali di Lidia Ravera. Tra le letture recenti ho trovato potente La città dei vivi di Nicola Lagioia".
Che tv guardava?
"Pinocchio, La baronessa di Carini, Sandokan. E Discoring, imperdibile".
Perché aveva puntato su Gloria Guida e Sabrina Ferilli per due format sulle donne?
"Guida conduceva Le Ragazze, un racconto tra le generazioni, e Ferilli Storie del genere, sulla transessualità. Solo un’icona può aiutare queste persone a svelarsi. È quello che ho fatto su Rai1, appaltando, dall’ora di pranzo al pomeriggio, a Antonella Clerici, Serena Bortone, Alberto Matano: un mix tra informazione di qualità e intrattenimento".
Si sente un potente?
"Di certo non ne approfitto. Mai chiesto un biglietto in prima fila a teatro".
I politici non chiamano?
"In due anni da direttore di Rai1 avrò ricevuto dieci telefonate. In genere sono commenti sulle trasmissioni, semi proteste, quindi, ma esposte con misura".
I giornali della destra l’accusano di fare una tv gay friendly.
"È un’accusa ideologica, oltre che una lettura medievale della televisione. Chi mi conosce sa che non ho mai usato le reti che ho diretto per personalismi o indottrinamento; alcuni conduttori bersagliati, peraltro, c’erano già prima che arrivassi io a Rai1".
Che Italia vede dalla sua stanza?
"Sono molto sollevato per la conferma di Sergio Mattarella al Quirinale. E lo stesso vale per Mario Draghi. Mi rassicurano entrambi. Restiamo però un Paese che offre troppo poco ai giovani. Provo sempre ammirazione per chi, partendo da umili origini, ce l’ha fatta".
Prima diventò il bambino più famoso d’Italia, come l’Andrea Balestri che era stato Pinocchio per Comencini. Dopo diventò il bambino più famoso al mondo, quando la notizia del premio Oscar arrivò di notte dall’America, papà era sveglio davanti alla tv, lui crollato dal sonno e con la febbre. Tutti invitavano Totò Cascio, tutti lo volevano all’inizio degli anni Novanta dopo Nuovo Cinema Paradiso. Ha fatto a braccio di ferro in tv con Sylvester Stallone e ha cantato in un disco con Fabrizio Frizzi. Ha posato per la copertina di Tv Sorrisi e Canzoni insieme agli altri due Totò d’Italia al culmine della loro popolarità (uno era Cutugno e l’altro era Schillaci) ed è stato a cena con Roberto Baggio. S’è fatto regalare le maglie da Berlusconi per tutta la squadra di calcio del paese. Era il piccolo bimbo prodigio del cinema, quello che nel film prendeva il posto da proiezionista di Philippe Noiret e diventava i suoi occhi sul mondo, una volta che il vecchio Alfredo aveva perso la vista. "La vita non è come nei film" si era sentito dire, quando invece la stessa vita di Totò si stava indirizzando verso il buio. La sera che Adriano Celentano gli chiese di leggere un brano della Bibbia nel suo programma Svalutation, dovette farsi portare una lente di ingrandimento in aggiunta agli occhiali.
Era retinite pigmentosa con edema maculare. A Totò Cascio ormai dodicenne e alla sua famiglia lo confermarono i medici di Boston. Una condizione genetica, ne soffre anche uno dei fratelli. Un trauma vissuto inizialmente come una vergogna. Non doveva saperlo nessuno, e nessuno lo seppe. Totò sparì, si nascose in un guscio, la sua sfortuna era che nessuno lo dimenticava. Con i giornalisti che telefonavano per domandargli come mai il cinema gli avesse voltato le spalle, non sapeva più quale scusa inventare. "Ma tutto era iniziato molto prima, alle scuole elementari. Dovevo alzarmi dal mio posto e avvicinarmi alla lavagna per leggere". Ora Totò Cascio racconta i suoi anni difficili e di solitudine in un libro, La gloria e la prova (Baldini+Castoldi, pp.128, euro 16), perché - dice - "ho fatto in tempo a conoscere prima l’una e poi l’altra, la malattia non è arrivata in forma galoppante. Ho capito che il vero uomo non si vede nel successo, ma nell’incontro con le difficoltà". Giuseppe Tornatore ha scritto la prefazione, Andrea Bocelli la postfazione. "Con Peppuccio siamo rimasti in contatto, per molto tempo ho taciuto anche a lui come a tutti la mia condizione. Sul set mi trattava con rigore durante le riprese e con affetto fuori. Credo che il suo primo insegnamento sia stato farmi capire che esiste un momento per ridere e uno per essere seri. Non ho mai scordato una sua sfuriata per un mio capriccio".
Che cosa aveva combinato?
"Stavo iniziando a sentirmi fico. Tutti mi dicevano che ero bravo. Dovevamo girare la scena in cui le pellicole vanno a fuoco dentro casa. C’era tutto il paese che assisteva e io non la facevo come voleva lui. Non so cosa mi prese. Non era stanchezza, non c’entravano gli occhi. Era una forma di menefreghismo. Gliela feci ripetere un mucchio di volte, finché esplose, mi gridò che il produttore e che tutta Roma erano scontenti di me. Sono passati oltre trenta anni e la mortificazione ancora la ricordo. Mi servì".
Perché non parlò della sua condizione nemmeno a lui?
"Perché l’ho vissuta male a lungo, con un senso di vergogna. Avevo paura di essere considerato un diverso. Paura di non piacere più. Mi camuffavo. Ho dovuto fare un mio percorso di consapevolezza e di accettazione, mi sono fatto accompagnare da uno psicoterapeuta. Ancora adesso, per scrivere il primo capitolo del libro, ho sentito un nodo in gola all’idea che tante altre persone avrebbero saputo. Ma parlarne, ora, è terapeutico. Mi sono aperto un anno fa, quando l’ennesimo giornalista ignaro mi chiamò per un’intervista sulla lontananza dal cinema. Alla terza volta che lo chiedeva, presi fiato e glielo dissi. Fu liberatorio, ne avevo bisogno. Ho scoperto quella serenità mentale che mi era mancata. Ero affamato di storie di coraggio, cercavo testimonianze che mi dessero forza. Le ho trovate nella vita di Alex Zanardi, nella serenità di Andrea Bocelli, nella conversione di Claudia Koll, nella fermezza di Annalisa Minetti. Mi hanno dato sicurezza la conferenza stampa in cui l’allenatore Mihajlovic ha parlato della leucemia, o le parole di Gianluca Vialli sul suo cancro. Nel frattempo, ero riuscito ad aprirmi almeno con le persone più vicine: Peppuccio Tornatore, Leonardo Pieraccioni, Andrea Bocelli".
Come ha conosciuto Pieraccioni e Bocelli?
"Con Pieraccioni via Facebook. Un giorno posta una foto di Nuovo Cinema Paradiso e scrive delle belle cose. Per ringraziarlo chiamo la redazione del programma di Carlo Conti, che insisteva da tanto per avermi ospite. Io mi negavo per non mostrarmi. Lasciai il mio numero e poco dopo Leonardo richiamò. All’inizio non gli dissi tutto. Solo dopo il mio percorso terapeutico a Bologna, quando mi sono sentito pronto, gli raccontai della malattia. Gli chiesi di aiutarmi a incontrare Bocelli. Mi fece bene sentire da lui che credere di aver toccato il fondo non è la fine di niente e che il nostro buio non era un disonore. Ora mi sento pronto, mi piacerebbe tornare in tv e al cinema".
Che cosa le piacerebbe fare?
"Avere una rubrica dove parlare di disabilità senza commiserazione, in maniera leggera. Dove raccontare che si può attraversare la città da soli con un bastone bianco anziché farsi accompagnare da un badante. Dove parlare di autonomia, bisogni, responsabilità. Sono felice quando qualcuno dice che la mia storia lo ispira. Non ho la pretesa di lavorare a tutti i costi, ma fare qualcosa in un film con Ficarra e Picone, oppure con Checco Zalone, in questi anni mi sarebbe piaciuto, e forse potrei. Certo, non il ruolo del centralinista cieco. Non mi fraintenda. Dico così perché penso che manderei un cattivo messaggio. Ho conosciuto uno chef non vedente che continua i suoi corsi e la sua vita regolarmente. Ha un piano cottura a induzione magnetica senza gas, come io ho il programma voice over su iPhone che mi aiuta. Sto su Facebook, leggo libri, uso WhatsApp, scrivo i miei post. Volere è potere. Per anni ho seguito con ansia notizie di medicina, articoli di giornali su scoperte e tecnologie. So che sono in corso sperimentazioni. Io serenamente ho smesso di aspettare. Se sarà, quando sarà, vedremo. Se oggi ci fosse una sola retina in grado di ridare la vista, la lascerei a mio fratello".
Totò, c’è qualcosa che le manca?
"Non me lo sono mai chiesto. Non ho più paura di avere paura. Ho tolto la maschera. Il mio obiettivo più grande l’ho raggiunto. Ora che mi ci fa pensare, mi manca Philippe Noiret. Mi manca non aver potuto dire anche a lui chi sono diventato".
Sul Venerdì del 25 febbraio 2022