la Repubblica, 3 marzo 2022
I ricordi, pubblicati postumi, di Gino Strada
La guerra la vide arrivare la prima volta davanti all’ospedale di Quetta, in un Paese – il Pakistan – che almeno ufficialmente viveva in pace. Ma i segni della guerra attraversavano i confini dell’Afghanistan, uscivano dalla regione di Kandahar, scendevano nel Belucistan e dopo due giorni di viaggio impossibile scaricavano proprio lì, davanti al “Surgical Center for War Wounded” i feriti più gravi, trasportati con qualsiasi mezzo: macchine gialle scassate che una volta erano taxi, camion sgangherati, carretti trasformati in ambulanze di fortuna, trascinate da asini o da cammelli. Quel giorno scese da uno di quei mezzi di pronto soccorso improvvisato un vecchio afghano nel suo patù marrone liso, e sorreggeva un bambino di sette anni col braccio destro avvolto in uno straccio sanguinante. Mezz’ora dopo, nella sala operatoria, Gino Strada aprì la fasciatura e scoprì l’orrore, una palla bruciata di muscoli, pelle, ossa, frammenti di plastica al posto della mano che era esplosa: amputò il braccio poco sopra il polso. Aveva visto il resto della bomba, l’effetto della mina giocattolo di plastica verde – la PFM-1, di fabbricazione sovietica – con due piccole ali e il detonatore nel corpo centrale, costruita per ingannare e mutilare. E aveva capito, da quel momento, a cosa serviva quella corsia pediatrica in un ospedale per feriti di guerra, e perché nel cortile c’era quel gruppo di bambini seduti al sole con un arto amputato e il pigiama azzurro uguale per tutti.
Comincia così la seconda vita di Gino, che diventa definitivamente la prima, prepotente e dominante come una passione che si trasforma in obbligo, un dovere che diventa ossessione. In precedenza, tutto sembrava preparato per portarlo fin lì, a incontrare la tragedia della guerra, a decifrare la sua follia e a cercare comunque di portarvi rimedio, con la chirurgia. Si erano già unite in un tronco unico le quattro, cinque radici della sua scelta di vita: l’impronta politica di Sesto San Giovanni, la cultura del lavoro, il sentimento di comunità, lo zio partigiano e l’antifascismo di famiglia, l’amore per la medicina che ti tiene a contatto con gli esseri umani, l’esistenza come militanza. Poi l’incontro col leggendario professor Staudacher, che aveva fondato a Milano il primo reparto di chirurgia d’urgenza in Europa, dove Strada scopre subito di essere «un animale chirurgico». Quindi quattro anni negli Stati Uniti, a Pittsburgh e Stanford a studiare i trapianti di cuore e polmone e poi, al rientro, la curiosità di fare esperienza in un contesto diverso, nella povertà del Terzo Mondo: e qui, «per puro caso», l’incontro con la guerra.
La guerra e il corpo, che è il suo bersaglio e la sua vittima, ma anche la sua evidenza. Niente come il corpo, l’inermità dei feriti, l’offesa del sangue svela la natura della guerra e la sua semplice e definitiva disumanità. In mezzo al rumore e alla polvere di Quetta, al traffico, agli animali per strada, al caos di centinaia di migliaia di afghani fuggiti dal conflitto, Gino è ancora «un estraneo prestato a un pezzo di mondo diverso», immerso nel lavoro che lo sovrasta, anche nove giorni di fila in ospedale senza uscire «lavando le mutande nello spogliatoio, per poi reindossarle bagnate, tanto faceva caldo». Il peso estremo di quell’esperienza totale comincia a farsi sentire, davanti a ferite devastanti mai viste, all’imprevedibile che pretendeva soccorso, alle tecniche da improvvisare, spingendo le conoscenze oltre il limite. La quantità di violenza che Strada si trova davanti separa definitivamente la sua vita futura da quella passata: «Tornato in Italia dopo un anno, non riuscivo più ad adattarmi alla quotidianità. Sapevo. Non avrei potuto far niente per fermare quella follia, ma potevo curarne le vittime». Così riparte, con la Croce Rossa: destinazione Kabul, dove arriva con un atterraggio a vite per evitare che l’aereo diventi l’obiettivo dello Stinger di qualche mujaheddin appostato sulle montagne.
L’ospedale è a Karte-Seh, razzi, colpi di mortaio, raffiche, 150 letti e 700 ricoverati, col medico costretto al triage per decidere non chi è il più grave, ma chi ha più chance di sopravvivere. E qui, Gino capisce. Sfoglia i registri dei ricoveri, scopre che su 12 mila ricoverati negli ultimi mesi il 34 per cento sono bambini, il 26 anziani, il 16 per cento donne: i combattenti arrivano appena al 7 per cento. «Ero sorpreso, confuso: neanche un ferito su 10 aveva preso parte al conflitto. Ma se nove vittime su dieci sono civili, questa non è nemmeno più guerra, dovremmo cambiarle nome. Cosa c’entrano i civili?». Da questo nucleo di coscienza germoglia l’idea di Emergency, Gino ne parla alla moglie Teresa e a Cecilia, la figlia, per la prima volta nel ’93, poi si butta nel progetto, «perché prima si decide di fare una cosa, poi si pensa al come e a tutto il resto. È la scelta di mettersi in gioco che spinge a trovare soluzioni».
Il primo reparto di terapia intensiva in Afghanistan, centri chirurgici per vittime di guerra in Ruanda, Iraq, Cambogia, Eritrea, Palestina, Algeria, Libia, un ospedale di maternità in Panshir dove la mortalità infantile è tra le più alte del mondo, un complesso chirurgico pediatrico in Uganda dove ci sono quattro chirurghi pediatrici per venti milioni di bambini. Disegnato da Renzo Piano, «scandalosamente bello», come voleva Strada, per rovesciare il luogo comune per cui in Africa qualsiasi aiuto va bene: «No, non ha senso portare laggiù il meglio che niente, portiamo il meglio, pratichiamo l’uguaglianza anche nelle soluzioni più innovative, nella bellezza, per dare loro quel che vorremmo per noi stessi». I comandamenti sono quattro, ovunque sempre gli stessi: «Curare bene le persone; non schierarsi, perché la guerra non è mai nostra; essere indipendenti; rendere le cure accessibili ai feriti di tutte le parti in conflitto». Da qui le polemiche: Emergency cura i talebani? «Sì, perché siamo medici e prima ancora esseri umani, e anche per il più crudele dei terroristi vale il diritto fondamentale a essere curato». Negli anni cresce in Strada il rifiuto totale, filosofico e anche ideologico della guerra, delle 241 mila vittime in Afghanistan, dei 265 conflitti che hanno insanguinato il pianeta dopo il 1945, per arrivare fino alla conclusione di Einstein: «La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire». È un caso, ma anche una pedagogia che questo libro ( Una persona alla volta, Feltrinelli) curato con amore da Simonetta Gola, la moglie di Gino, arrivi al pubblico proprio mentre s’inizia un nuovo conflitto. Cosa direbbe di tutto questo lui, che nella prima pagina nega di aver scritto un’autobiografia, preferendo «tirare le fila di quel che ho visto e vissuto»? Fermando per un momento le discussioni sulla democrazia e sull’Occidente, che ci hanno divisi nell’amicizia tante volte in questi anni, forse vorrebbe partire per uno dei suoi ospedali nel Terzo Mondo, gli unici antidoti alla guerra che conosceva. E lì, come dopo un intervento in sala operatoria, concluderebbe dicendo Kullu tamam, tutto bene.