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 2022  marzo 03 Giovedì calendario

D’Alema si difende sulla storia delle armi alla Colombia

Massimo D’Alema parla senza mai fermarsi. È in Albania, ospite del premier Edi Rama. «Parlo da una residenza del Governo, un museo della storia albanese, in particolare del comunismo, che hanno appena ristrutturato: un posto incredibile, molto bello». «In queste ore – dice - ho letto delle cose incredibili: che io avrei fatto da mediatore per la vendita di corvette, che io avrei guadagnato milioni con Fincantieri e Leonardo. Tutte fandonie».
Partiamo dal principio, presidente. Che ci fa lei a parlare di vendita di armi italiane con il governo colombiano?
«Se è possibile, farei un ulteriore passo indietro. Dal 2013 io non sono più parlamentare. Da dieci anni. Da quando ho lasciato ogni responsabilità politica, svolgo un’attività di consulenza regolare: ho una mia società e inoltre lavoro con Ernst&Young, di cui sono presidente dell’advisory board. Il mio lavoro è quello di consulenza strategica, relazioni, ma non sono uno che va a fare mediazione di vendita. Con la mia professione cerco di sostenere anche le imprese italiane all’estero.
Spero non sia un reato».
Non lo è. Ma lei è un ex presidente del consiglio. Non un consulente qualsiasi.
«Per policy aziendale della mia società ho che non accetto incarichi da società pubbliche. Ma solo da private. Non sarebbe vietato, intendiamoci. Ma ritengo sia più giusto così».
Perché trattava per conto di Fincantieri e Leonardo?
«Questa è una bugia. Io non ho alcun rapporto di lavoro né con Fincantieri né con Leonardo e non trattavo per conto di nessuno».
Ma era al tavolo con i colombiani.
Per quale motivo?
«In questi mesi mi sono occupato di Colombia, ma su altri temi: energia, portualità e sempre per conto di alcune delle società private per cui collaboro. Nell’ambito di questo mio lavoro sono stato contattato da personalità politiche colombiane, con incarichi istituzionali, che mi hanno detto: “Il Parlamento colombiano ha deliberato uno stanziamento per l’ammodernamento delle forze armate. E vorremmo puntare sui prodotti italiani”. Si tratta di un mercato all’interno del quale la competizione è durissima. Ed era una cosa molto importante per il nostro Paese: parliamo di un investimento di 5 miliardi».
Come mai vengono da lei?
«Non dovete fare a me questa domanda. Io ho informato subito Leonardo e Fincantieri, che sono importanti clienti di Ernst&Young. Ho parlato con il direttore commerciale di Leonardo. E ho detto a questi signori colombiani che era necessario trovare una società seria per iniziare la discussione. Loro hanno scelto questo studio legale americano, un business law molto attivo in America Latina. Ci sono due aspetti che vanno chiariti dunque. Il primo è che le società italiane si sono comportate con grande prudenza e correttezza, non hanno dato soldi o incarichi a nessuno. Il secondo aspetto è che i contatti che sono stati avviati hanno avuto un carattere ufficiale, la lettera di invito alle società italiane in Colombia reca l’intestazione della Cancelleria, cioè del ministero degli Esteri e non di qualche gruppo di cittadini privati».
Lei aveva una consulenza con questo studio americano?
«Assolutamente no».
Che succede dopo il suo interessamento?
«Le due aziende italiane ricevono la lettera ufficiale come dicevo. C’è stata una visita, alla quale non ho partecipato, perché appunto non avevo alcun ruolo. So che ci sono stati una serie di incontri di natura istituzionale: in particolare è stata presentata la proposta sul piano tecnico alle forze armate. E si sono conseguiti risultati: per Fincantieri, si è arrivati anche a un memorandum of understanting».
Tutto bene, quindi.
«C’era una circostanza, nel report che mi era stato inviato, che mi aveva però colpito: non c’erano stati contatti a livello governativo. Per questo ho fatto due cose: ho parlato con l’ambasciatrice della Colombia, Non ne sapeva nulla. Ne sono rimasto sorpreso. E ho provveduto a informare il vice ministro alla Difesa, Giorgio Mulè, dell’attività in corso».
Mulè che le ha risposto?
«Non ha parlato direttamente con me. Mi è stato riferito che avrebbe detto di andare avanti».
Veniamo alla registrazione, pubblicata da “La Verità”: perché lei dice ai colombiani “è stupido creare problemi. Siamo convinti che riceveremo 80 milioni, questa è la posta in gioco”.
«Uno dei colombiani che ha chiesto di parlarmi, mi considerava il garante dell’operazione. Lamentava che non erano stati pagati. Ho spiegato che l’unica maniera per avere un riconoscimento per il loro lavoro era partecipare a un “success fee”. Ove mai l’affare fosse andato in porto».
Quando si blocca invece?
«Qualcuno rende pubblica la telefonata che aveva registrato in maniera illegittima. Per danneggiare le società italiane: non a caso in questi giorni in Colombia sono usciti articoli sulla possibilità di acquistare le navi e gli aerei dalle imprese di altri paesi, in particolare statunitensi».
Lei dice oggi: non avrei guadagnato un euro, anche se fosse andata bene.
«Certo».
Perché allora dice in quella riunione “riceveremo 80 milioni”?
«Innanzitutto io non ho un’idea precisa di quanto possa essere il success fee in un’operazione di questo tipo, ho fatto riferimento al valore che normalmente si dà a queste transazione, è anche evidente che dovevo convincere un interlocutore riluttante e convincerlo naturalmente a fare una scelta nell’interesse dell’Italia e non della mia persona. In questa vicenda, ripeto, non ho contratti con nessuno.
Per me era già importante far conseguire un risultato a Leonardo e Fincantieri, che hanno un rilevante peso nel sistema economico italiano anche perché questo indubbiamente accresce la credibilità di chi fa lavoro di consulenza. Temo che tutto questo clamore avrà l’unico effetto di far perdere alle imprese italiane una commessa da 5 miliardi».