La Stampa, 3 marzo 2022
Quei baby detenuti lontani da casa
Guido e Momo sono gli ultimi di una lunghissima lista. Accusati di far parte di una violenta baby gang, sono stati arrestati all’alba di ieri dai carabinieri e sono finiti al cpa del carcere minorile di Airola, Benevento, a ottocento chilometri di distanza dalle loro seppur complicate famiglie. Da fratelli, sorelle, mamme, papà, affetti, fragili punti di riferimento. Che, tra il lavoro spesso precario, gli altri figli da tirare su, le enormi difficoltà economiche per arrivare alla fine del mese, certamente non riusciranno ad andare a trovarli in Campania. Semmai potranno sentirli, quando va bene, con una videochiamata.
Guido e Momo sono nomi di fantasia perché questi ragazzi hanno soltanto 15 e 14 anni. Ma la loro situazione è identica a quella di più di cinquanta giovanissimi arrestati tra Milano e la Lombardia. Finiti addirittura a Caltanissetta, Bari, Nisida, un’isoletta campana dell’arcipelago delle Flegree. A denunciare la loro situazione è il garante dei detenuti Francesco Maisto, che ne ha riferito anche alla Commissione carceri del Comune. «Perché nell’unico istituto della regione, il Beccaria, lo spazio che dovrebbe essere destinato a loro è interessato da lavori di ristrutturazione che vanno avanti da oltre quindici anni. L’appalto, assegnato dal Provveditorato alle Opere pubbliche, risale infatti al 2005. Nel 2022 l’ala non è ancora stata riconsegnata alla direzione del carcere». I motivi di questo stallo, che Maisto definisce «uno schiaffo a una città come Milano che tanto fa e investe, anche a livello associazionistico, nella rieducazione dei minori», sono presto detti.
«Non ho in mano ancora le carte degli appalti – che senza dubbio saranno costati milioni di euro di soldi pubblici, anche se nessuno rivela la cifra precisa – ma da quel che ho potuto ricostruire i problemi in questi diciassette anni sono stati i più svariati, moltiplicati dalle lungaggini della burocrazia, tra ditte fallite, ricorsi di aziende che non si sono aggiudicate la gara e varianti in corso d’opera».
E già, perché ovviamente in 17 anni sono cambiate completamente le esigenze e le regole di costruzione. Il risultato? Al Beccaria ci sono solo 31 posti. Quando si arriva a 38 detenuti, si procede allo «sfollamento»: cioè a caricarli sui cellulari della Penitenziaria e a trasportarli a centinaia di chilometri di distanza da casa, con buona pace di mamme e avvocati che in questi anni hanno scritto decine di lettere al Tribunale per i minorenni e alla direzione del carcere.
«Tutto questo – denuncia Maisto – si aggiunge a un altro fatto grave: anche l’ala che è stata ristrutturata e già restituita all’amministrazione penitenziaria in realtà non è occupata dai ragazzi, perché desta molte preoccupazioni rispetto all’adeguatezza a ospitare detenuti minori». Nel senso che, sembra di capire, è stata costruita per ospitare uffici, spazi comuni, non celle con tutti i sistemi di sicurezza necessari per i giovani detenuti.
Così, a causa di burocrazia e scelte che si sono rivelate nella migliore delle ipotesi del tutto inadeguate, in barba al principio di territorialità della pena, ragazzi di 14 o 16 anni finiscono in Sicilia, in Puglia, in Campania. «Eppure – racconta Maria Vittoria Rava, della Fondazione Francesca Rava, che tanto sta facendo per il Beccaria con il progetto «Palla al centro» – se ai ragazzi chiedi cosa gli manchi di più della loro vita fuori, tutti rispondono la famiglia e non la libertà». E questo dà la misura della dimensione del problema, per anni denunciato anche nel report «Ragazzi Dentro» dell’associazione Antigone. Dell’osservatorio fa parte Michele Miravalle: «Quel che nel tempo mi ha fatto più impressione è stato vedere l’enorme cambiamento del quartiere intorno al carcere, mentre dentro restava tutto uguale. Da dieci anni, per accedere passo sotto un tunnel nel cantiere. E questo dà plasticamente l’idea del mondo parallelo che c’è dentro».
C’è da dire che però a partire dal 2017 qualcosa si è mosso. Perché la presidente del Tribunale per i minorenni Maria Carla Gatto, la direttrice del Centro di giustizia minorile della Lombardia, Francesca Perrini, e il capo del dipartimento Giustizia minorile del ministero, Gemma Tuccillo, appena nominate quattro anni fa, hanno subito preso a cuore la situazione dando una scossa all’avanzamento dei lavori che pure non dipendevano da loro, ma dal Provveditorato alle Opere pubbliche. «Abbiamo dovuto combattere in sinergia e non è stato semplice. Perché – racconta la presidente Gatto – in questi anni di fatto è stato impedito al più importante istituto penale per i minorenni d’Italia di poter funzionare al massimo delle sue potenzialità». Ora la speranza è che i lavori si concludano per la fine del 2022. Forse però, a monte, sarebbe servita qualche valutazione in più su una struttura talmente vecchia e inadeguata «che si sarebbe fatto prima ad abbattere e ricostruire, invece di ristrutturare».