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 2022  marzo 03 Giovedì calendario

Perché Roman Abramovich vende il Chelsea

Il ponte che ha unito la Russia e l’Occidente in nome di valori comuni come il calcio, l’arte e i soldi è collassato. Roman Abramovich ha rappresentato meglio di chiunque altro quel legame e ora è costretto ad annullarlo. Mette ufficialmente in vendita il Chelsea che ha foraggiato con 1 miliardo e mezzo di sterline negli ultimi 19 anni e non vuole niente in cambio. La sua ambigua generosità è il poster di un’epoca: come in ogni propaganda che si rispetti il manifesto è sempre l’ultimo pezzo che viene giù.
Abramovich, la quinta essenza dell’oligarca, figura impalpabile che si porta dietro patrimoni immensi, affari in molteplici ambiti frammentati in infinite società, frequentazioni importanti, vari gradi di relazione con Putin e tonnellate di equivoci. La comunicazione di Abramovich è sempre stata misteriosa e l’ultimo atto a cavallo tra Est e Ovest rispetta il copione: «Non sottovaluteremo la società per velocizzare la cessione e il ricavato andrà in un fondo gestito da un’associazione che destinerà tutto alla vittime di guerra in Ucraina». Vediamo il giro che faranno questi soldi in tempi incerti, i milioni di Abramovich hanno sempre percorso chilometri prima di arrivare a destinazione o cambiarla, come lui. Paranoico, da identikit dell’oligarca perfetto, muove spesso i suoi sei jet contemporaneamente per disperdere le tracce. Sarebbe così che, secondo certe ricostruzioni, è volato in Bielorussa da mediatore nelle trattative tra Russia e Ucraina. Di certo gli è stato chiesto di ricoprire quel ruolo da entrambe le parti, ancora ponte, anche se non è mai stato un passaggio sicuro. Non sarebbe tra le persone chiave del tavolo e non è detto che sia fisicamente presente, ma la sua espressione completamente neutra lo aiuta a stare nel mezzo delle situazioni più assurde.
Finanziatore della prima campagna elettorale di Putine, privatizzatore nella Russia post sovietica e poi ingranaggio utile per rivendere allo Stato, ansioso di recuperare il potere. La titanica Gazprom cresce anche grazie all’acquisizione della Sibnet, che era sua. Si compra il Chelsea nel 2003 e trasforma il club orgoglio di un quartiere in una squadra globale.
A differenza di sceicchi ed emiri che foraggiano senza riuscire a spingersi fino al massimo della gloria, Abramovich ha vinto tutto. Più volte. Cinque Premier, 5 Fa cup, 2 Champions, 2 Europa League, 1 Mondiale per club e una Supercoppa europea. Ha speso quanto prima del suo arrivo nel mondo del pallone non era possibile immaginare e quanto oggi invece investono anche altri. Ha fatto vorticare i soldi, si è comprato un pezzo di Londra, emotivamente e fisicamente. Ora vuole limitare i danni causati dall’incontrollabile Putin. Suo amico, ma Abramovich non lo definirebbe mai semplicemente così. È andato in tribunale per querelare l’autore di un libro in cui si diceva che il presidente gli aveva consigliato di prendere il Chelsea. Comprare una società che tra i suoi beni ha i tifosi, un’entità molto simile a un esercito, concede evidenti privilegi. Un oligarca russo con un’armata inglese che gli garantisce accesso, stabilità, credibilità. Lui ha fatto causa per avere la proprietà dell’idea.
Pure i suoi affetti sono sparpagliati, almeno quanto il portfolio. Figlio di un’ucraina scappata in Russia da bambina, durante la guerra, nel 1941, ebreo che devolve alla comunità religiosa somme elevate. Quando la Gran Bretagna gli ha negato il doppio passaporto, lui ha preso la cittadinanza israeliana, poi ha aggiunto quella portoghese. Ha continuato a mescolare e spostarsi con frasi trabocchetto e sguardi imperscrutabili.
La sua fortuna vale 15 miliardi di euro e Londra non lo ha ancora toccato. Tra una minaccia di congelamento beni e l’altra ha venduto Kensigton Palace, 15 stanze valutate più di 150 milioni di sterline e i tre piani costruiti a Chelsea, la foresteria da 22 milioni di sterline. Ha molti altri immobili e diversi appoggi per il suo sfuggente equilibrismo. A Mosca è tutt’ora proprietario della metà del Garage, museo aperto nel 2008 con l’allora moglie Daria Zhukova. Lei lo gestisce e ne possiede l’altra metà, lei ne ha fatto un centro d’arte e di scambio dentro Gorky Park. Una comunità internazionale nel parco delle spie. In questi giorni ha chiuso il Garage «solidarietà, per le sofferenze del conflitto». Le stesse che ora Abramovich vuole ridurre con la filantropia. Con la vendita del Chelsea, la cessione di uno dei tanti barcollanti ponti che ha costruito e poi fatto saltare. Solo se davvero cadrà il manifesto della sua ambiguità vedremo che cosa c’è dietro.