il Giornale, 3 marzo 2022
Ora nessuno vuole il petrolio russo
È la sindrome da nave dei dannati. Niente porti dove attraccare. Il peggio del peggio per chi sta in mare. Così, le petroliere girano al largo: dal greggio russo. Il barile con le insegne di Putin non lo vuole più nessuno. Troppo alto il rischio che le sanzioni colpiscano anche lì, come lasciato intendere da Joe Biden, e si rimanga con i tank pieni. Qualcuno questo rischio ancora se lo assume, però in cambio pretende cifre esorbitanti.
Le tariffe sulla rotta Mar Nero-Mediterraneo sono schizzate in una settimana da meno di 17mila dollari al giorno a oltre 107mila dollari, mentre quelle della direttrice che collega il Baltico all’Europa sono lievitate in 24 ore di 35mila dollari, per un conto finale di 210mila dollari. Il progressivo isolamento del Cremlino si misura anche così. Ed è altrettanto palpabile sia nel rifiuto delle raffinerie svedesi, finlandesi, cui si sono uniti anche gli hub giapponesi e coreani, di acquistare il petrolio di Mosca, sia nel no delle banche a chi chiede finanziamenti per spedire le materie prime russe. Ma, soprattutto, diventa palmare dopo quello che è successo martedì scorso, quando i trader di un colosso nel commercio di materie prime come Trafigura non sono riusciti a trovare compratori per il greggio Ural nonostante uno sconto superiore ai 18 dollari il barile rispetto al Brent.
Insomma, roba da far tremare i polsi a oligarchi dell’oro nero come il capo di Lukoil, Vagit Alekperov, e al numero uno di Rosneft, Igor Sechin. Gente così vicina allo zar Vlad da aver ora il petrolio alla gola. Proprio Rosneft starebbe giocando la carta della disperazione con consegne porta a porta tramite la flotta governativa Sovcomflot. L’offerta è da saldi di fine stagione: greggio in cambio di contanti, senza che all’acquirente venga chiesto di pagare né il trasporto, né le assicurazioni. Acque agitate come tra la gente a Mosca, dove la metropolitana è andata ieri in tilt a causa del blocco dei pagamenti via Apple Pay e Google Pay. Non va meglio a chi ha in tasca azioni russe. La Borsa moscovita è rimasta chiusa anche ieri per il terzo giorno consecutivo, ma in pochi sedute il Dow Jones Russia GDR Index, un indice che replica i principali certificati di deposito globali russi scambiati alla Borsa di Londra, è crollato del 98% cancellando 572 miliardi di dollari di capitalizzazione di 23 titoli, tra cui Gazprom, Sberbank e Rosneft.
A preoccupare, però, è in particolare il pericolo di un trauma energetico a doppia mandata, visto che ieri ad Amsterdam i futures sul gas sono aumentati del 60%, sfiorando i 195 euro per megawattora, il massimo storico. Quotazioni che riflettono la madre di tutte le paure: una potenziale interruzione delle forniture a causa di ulteriori misure punitive dell’Occidente, oppure in seguito a una possibile ritorsione russa con le chiusure dei rubinetti di metano. C’è inoltre la consapevolezza che il cappio che si sta stringendo attorno al greggio di Mosca sarà doloroso per tutti. Circa il 70% del commercio di petrolio russo è congelato, afferma la società di consulenza Energy aspect. E tutto ciò ha evidenti riflessi sulle quotazioni, poiché alla domanda globale vengono di fatto sottratti due terzi dei cinque milioni di barili che ogni giorno la Russia esporta. Non a caso le quotazioni si sono spinte ieri oltre i 112 dollari prima di ripiegare leggermente fino a quota 110. Di fatto, la decisione confermata ieri dall’Opec+ (il Cartello allargato di cui fa parte anche la Russia) di un incremento produttivo di 400mila barili in aprile, non cambia lo scenario avverso basato su una grave carenza di offerta. Il rischio, ammoniscono alcuni analisti, è che con prezzi in ascesa verticale si vada incontro a uno choc petrolifero ancora peggiore di quello vissuto a metà degli anni Settanta.