Corriere della Sera, 3 marzo 2022
Ai Weiwei all’opera
Ai Weiwei è un uomo mite e un sopravvissuto. Il grande artista vive in «esilio» a Berlino dalla sua Cina di cui dice: «Amo il mio Paese e la mia cultura, non amo il suo governo». Lo incontriamo all’Opera di Roma, dove sta preparando regia, scene, costumi e video di Turandot. «In ogni mio progetto c’è una dimensione politica, ma poi ricordiamoci che la gente va a teatro». «One shot», un colpo solo: è la sua prima e ultima regia d’opera. Il giorno è il 22 all’Opera di Roma, sarà uno degli eventi dell’anno, ripreso da Rai Cultura per Rai 5.
Weiwei, lo spettacolo era previsto due anni fa...
«Questa pausa ha portato a un ripensamento. Ci sono stati due disastri, la guerra della Russia in Ucraina, e la pandemia che mi hanno spinto ad alcune riflessioni che hanno in parte cambiato la mia visione. Mi riferisco alle immagini di Wuhan, di come quella popolazione ha vissuto lo scoppio del coronavirus. Ci sono altri due filmati, uno sui rifugiati e un altro sulle manifestazioni di Hong Kong del 2019 contro la proposta di legge cinese sull’estradizione. Da mille ore registrate, ne proietto una, su quattro maxischermi. Metto insieme sensibilità contemporanea e tradizione».
Hong Kong richiama l’Ucraina?
«Tutte le guerre hanno lo stesso carattere. Si combatte per il futuro, per il sogno, per la dignità. La disperazione di Kiev è comune con tutto il mondo. Nel secondo atto c’è un video di tante bombe nella storia umana, da una italiana progettata nel 1911 a quelle su Hiroshima e Nagasaki. Non si può scherzare su Putin, le sue parole sulla guerra nucleare possono essere il futuro».
La scena?
«Ci sono rovine di una città, con torri e buchi che danno forma ai continenti del pianeta. Come un mappamondo di colore grigio. La parte centrale ruota, si compone e si scompone. Roma è un bell’esempio di civiltà e rovine».
E Puccini?
«C’è una connessione tra l’amore, l’odio e la vendetta del nostro tempo con l’opera di Puccini. Quest’opera, pensando a chi combatte per la libertà, da Hong Kong all’Ucraina, ci insegna che la morte è amore. L’uomo vuole uscire dalle sue rovine ma nel percorso ne trova di nuove. Si costruisce e si ricade, come Sisifo. E il senso dell’essere umano è di volere la vera libertà. Voglio mettere in contatto la nostra vita di oggi con quella di cent’anni fa, all’epoca in cui Puccini si confrontò con la fiaba cinese. Il mondo è come un’opera lirica. Turandot, quest’algida principessa immaginaria e reale, significa forza e potere; il principe Calaf, suo pretendente, diventa rifugiato politico».
Il caso Gergiev, licenziato dai teatri occidentali per non aver preso posizione contro il suo amico Putin?
«Ogni artista ha il suo senso di giustizia, tutti vogliono costruire un mondo civile e democratico. Se a un artista, essendo amico di un politico, viene proibito di lavorare, stiamo andando verso una strada non più democratica. Se vogliamo limitare la libertà di parlare, andiamo verso una società tirannica e autocrate. Se non abbiamo la possibilità di avere un’opinione, viviamo nel nazismo».
Ma Gergiev ha scelto il silenzio...
«Può non piacerti, ma deve avere la possibilità della sua scelta. La Germania di Hitler ha espulso gli artisti che avevano opinioni differenti dal regime. Vorrei aggiungere che ammiro Oksana Lyniv, la direttrice ucraina di Turandot: una vera combattente».
Lei ha scritto un libro sulla sua vita, e sulla Cina.
«Ho scritto Mille anni di gioie e dispiaceri perché mio figlio sappia chi era suo nonno, mio padre, il grande poeta Ai Qing, genuino e naïf, morto nel 1996. Non aveva criticato il comunismo, aveva solo un diverso approccio e tutti dovevano essere uguali. Durante la Rivoluzione culturale abbiamo vissuto in un buco scavato nella terra che ho messo come sfondo del mio smartphone; ha vissuto le peggiori umiliazioni, lavava le latrine con dignità e un senso quasi estetico».
Anche lei fu arrestato.
«Nel 2011 sono stato 81 giorni senza poter parlare con i familiari e con l’avvocato, i miei aguzzini dicevano che avrei rivisto mio figlio dopo quindici anni, e che non mi avrebbe riconosciuto. Mia madre la chiamo in Cina ogni week-end, ha 90 anni, mi dice di non tornare. Se l’Occidente doveva essere più duro sui diritti civili? Si deve sopravvivere, alla fine vince il business».
Perché ha accettato di fare, e per una sola volta, l’opera?
«Perché Turandot mi riporta a quando ero un ragazzo a New York: ero povero, senza soldi. E il Met di New York mi prese come comparsa alla Turandot di Zeffirelli. Io facevo il boia».