Corriere della Sera, 2 marzo 2022
Su "La lingua scəma. Contro lo schwa (e altri animali)" di Massimo Arcangeli (Castelvecchi)
L’associazione «Menelique» si è data un obiettivo modesto: promuovere «una lingua che sappia riproporre il nostro internazionalismo, dandoci ulteriori strumenti in sede di traduzione, il nostro anticolonialismo, non limitandosi a esprimere il binarismo di genere delle culture occidentali, e la nostra queerness non costringendoci nella gabbia del patriarcato ciseteronormativo. Una lingua intersezionale e fluida che sappia parlare di e a tutte le persone oppresse». Testuale.
Qualche sparuto lettore non ha capito niente? Peggio per lui: è la lingua del futuro. Dove tutti sapranno benissimo cos’è la queerness (bizzarria, eccentricità, originalità) e più ancora il «patriarcato ciseteronormativo». Non c’è nei vocabolari Zingarelli, Treccani, Devoto-Oli, Sabatini-Coletti e men che meno in quello della Crusca? Amen. Del resto, come scrive in vari articoli ripresi online uno dei teorici della neolingua rispettosa di tutte le possibili diversità e basata sulla (sullo?) schwa e cioè la «e» rovesciata (Ə), «se la lingua è spugna che respira, imbevuta di liquidi vitali, noi abbiamo il dovere di portare ad essa i nostri liquidi, tali e quali, per ciò che essi, oggi, sono. La Crusca, quella verrà dopo».
Resta il tema: trattandosi di una lingua deve essere comprensibile a tutti come l’italiano agli italiani e il cinese ai cinesi o con un grimaldello politicamente corretto si può forzarne ortografia, grammatica, sintassi e tutto in attesa ch si imponga nei secoli dei secoli come è successo storicamente alle altre lingue? E nel caso come quello nostro in cui già gli italiani (anche i più colti) affogano in un burocratese incomprensibile (tipo: «affrancazione canone gravante sulla quota n. 327 fg. 74 part. 16 del demanio quotizzato») è opportuno introdurre perfino nei bandi universitari *, Ə, 3, o infine la chiocciolina @? Boh...
È il tema de La lingua scəma. Contro lo schwa (e altri animali) scritto per Castelvecchi da Massimo Arcangeli, il linguista promotore meno di un mese fa della petizione «Lo schwa (Ə)? No, grazie. Pro lingua nostra» firmata a oggi da quasi 23 mila scrittori, storici, artisti e appassionati di scrittura tra cui Francesco Sabatini, Luca Serianni, Edith Bruck, Alessandro Barbero... Un libro che parte da un’inattesa citazione di Acqua amara di Luigi Pirandello («Crede lei che ci siano due soli generi, il maschile e il femminile? Nossignore. La moglie è un genere a parte; come il marito, un genere a parte […]. Se mi venisse la malinconia di comporre una grammatica ragionata, come dico io, vorrei mettere per regola che si debba dire: il moglie; e, per conseguenza, la marito») per ricostruire la storia della «Ə». Dall’introduzione nel 1821 di Johann A. Schmeller (gli serviva per una grammatica tedesca-bavarese «un simbolo che indicasse una vocale ultrabreve» e avvertì la vicinanza allo schwa ebraico) fino alle sberle che si sono via via scambiati negli ultimi tempi i cultori della lingua italiana di oggi e i crescenti, piaccia o no, sostenitori di una lingua più «inclusiva» e «rispettosa» delle diversità di genere. Così decisi a forzare una svolta (peraltro avviata anche da università come quella di Udine dove sotto il motto hic sunt futura è spuntata su uno stendardo la scritta «UniUd cresce per tutt* e con tutt*») da sostenere per bocca di Alessio Giordano, sul magazine «Il Chiasmo» della Treccani: «La lingua che parliamo è forse più importante del diritto altrui di sentirsi rispettat3?». Dove quel 3 finale non è il 3 a noi noto ma uno dei simboli introdotti appunto per «includere» tutti: maschi, femmine e «non binari» in tutte le loro sfumature.
Una tesi contestata sulla stessa rivista Treccani dalla linguista Cristiana De Santis: «Sarebbe comodo, certo, pensare di estendere un espediente “semplice” (facilmente accessibile oramai sulle tastiere alfanumeriche) per risolvere i nostri problemi di (in)tolleranza e convivenza civile, se non ci fosse una controindicazione tanto forte da agire come dissuasore: non solo avalleremmo una soluzione semplicistica, ma ci sottrarremmo alle regole grammaticali della nostra lingua, acquisite in modo libero e spontaneo da ogni parlante madrelingua». Insomma, va al punto Arcangeli, una lingua artificiale imposta dall’alto non ha senso: «C’è inclusione e inclusione, e quando il rimedio è di gran lunga peggiore del male bisogna alzare le barricate».
Opinione condivisa dallo stesso presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini. Che mostra come in un libretto del 2018 intitolato Studenti e studentesse. Guida per l’uso, edito dall’Ufficio Relazioni con il pubblico del Miur, «comparivano forme come “la/il bull@”, “degli student@”, ma poi “i genitori”, “il Collegio dei docenti”, “il Dirigente scolastico”». Prova provata che troppo spesso «l’innovazione viene usata a caso, in maniera intermittente, persino nelle combinazioni elementari. Per testi complessi, il risultato sarebbe l’assoluta oscurità comunicativa».
Una deriva da fermare subito, sostengono le migliaia di firmatari della protesta contro la schwa. «Altrimenti, se un giorno qualcuno decidesse di redigere un atto di un’amministrazione centrale dello Stato in emoji, o in volgare duecentesco, o disseminasse il testo di bimbominkiate», cioè di «ke, xké o qlc1» sintesi estreme delle parole «che, perché e qualcuno» usate nei messaggini, nessuno potrebbe più obiettare alcunché».
Non mancano annotazioni irresistibili, come la varietà di opzioni per le corrispondenze: «Caro collega, cara collega: Car* collega, Caro/a collega, Car@ collega, Caro-a collega, Caro(a) collega, Carx collega, Caro.a collega, Caro·a collega, Car’ collega...» Inestimabile, però, è la risposta a quanti chiedono affannati come si pronuncia questa benedetta «e rovesciata». Risponde il già citato «collettivo menelique» editore d’un omonimo bimestrale di critica politica: la «Ə» «fa parte dell’alfabeto fonetico internazionale e rappresenta un suono che molte persone anche in Italia conoscono molto bene: lo schwa è per esempio il suono della seconda e terza vocale nel napoletano “mammeta”».