Corriere della Sera, 2 marzo 2022
Intervista a Tommaso Paradiso
Tempo di debutti per Tommaso Paradiso. A 38 anni un doppio inizio: il primo album solista «Space Cowboy» (esce venerdì) e il primo film da regista Sulle nuvole (26-28 aprile).
Che differenza c’è fra il Tommaso Paradiso solista e quello che «inventò» il nuovo indie coi Thegiornalisti?
«Non vorrei che si scatenassero gli avvocati (l’addio con la band è stato burrascoso ndr)... ma cambia solo il nome. Anche allora, come adesso, i dischi li facevo da solo assieme al produttore».
La differenza con il cantante caduto in disgrazia interpretato da Marco Cocci?
«Abbiamo in comune l’eccesso, il vivere tutto al massimo, drammi e gioie, la paura del palco, il piacere del vino... Spero di non fare la sua fine, lui ha una vita travagliata. Era una storia che doveva essere raccontata al cinema, una canzone non sarebbe bastata. Il cinema è la mia vera passione, ma nelle canzoni ci metto il mio mondo. Alla fine preferisco un tour sold out negli stadi che un Oscar».
«Piango sempre per gli stessi film» canta in «Space Cowboy». Quali?
«Il momento del ritorno a casa alla notte è particolarmente fragile e delicato e la mia comfort zone per addormentarmi sono le pietre miliari del cinema. In questo momento Totò Peppino e la... malafemmina mi fa piangere sul finale per l’idea di famiglia che ci vedo. Vedo cose pesanti ma ogni tanto un De Sica, che sarà protagonista del video di Tutte le notti, ci vuole».
Il vaccaro spaziale?
«Nella canzone che dà il titolo al disco c’è la frase manifesto: “tu vuo’ fa l’americano ma nel cuore c’hai Vasco”. Sono io, da sempre affascinato dall’America sia per l’immaginario dei cowboy che per l’idea di perfezione nello show business, ma poi c’è l’Italia, la melodia e l’armonia che sono casa e che si sentono in questo disco fatto da canzoni pop nell’essenza pura, con chitarre anni 80, qualche scopiazzatura di Lennon e pochi synth rispetto al passato».
In molti brani c’è il mare, ma non quello spensierato del tormentone «Riccione».
«Abbiamo registrato in uno studio in costiera amalfitana. Il mare è fonte di ispirazione, quando guardi l’infinito i pensieri prendono forma».
Quelli che hanno preso forma qui sembrano improntati alla malinconia, alla solitudine, alle lacrime... Figlio della pandemia?
«Non racconta la pandemia ma le riflessioni di quei momenti. La malinconia è fondatrice della produzione artistica. Il cervello rilascia sostanze che creano quella sensazione esattamente al centro fra tristezza e felicità, ma, come nei quadri di Magritte, nelle mie canzoni c’è sempre una luce in fondo. Mi sento più vicino all’idea di Nietzsche di opposizione fra apollineo e dionisiaco e quindi anche di un lato negativo che non deve sparire rispetto alla sintesi razionale di Hegel».
In «Tutte le notti» canta di concerti che vuole fare e cui vuole andare. Dopo più di un rinvio causa pandemia ha spostato il tour dai palazzetti ai teatri. Come mai?
«I teatri sono l’unica cosa garantita in questo momento. Non potevamo più spostare. Ho parlato con dei politici in questi mesi: non capiscono che ci mettiamo la faccia».
Primo album, ma dal 2019 ha pubblicato 8 singoli, 4 dei quali non sono qui dentro. Lo streaming ha ucciso l’album?
«La pandemia ci ha costretti a cambiare regole e nel marasma di canzoni scritte ho dovuto fare una scelta. A parte questo, se sei un hit maker te ne frega meno del disco ma da cantautore so che il pubblico vuole vedere dentro di me anche attraverso brani più personali che non saranno mai i singoli».
Mai pensato a Sanremo?
«Non capisco perché girasse il mio nome: non parteciperò mai a una gara canora. E poi dico che essendo il festival della canzone e non The Voice si dovrebbe valutare il brano. Magari per colpa di un’interpretazione incerta si perde un grande brano. Se allora uno volesse fare playback bisognerebbe lasciarlo fare».
Dylan non è perfetto, ma non abbiamo perso i suoi capolavori...
«Dylan non veniva bombardato dai commenti su Instagram. Il costante giudizio degli haters è pesantissimo».
«La vita non è un cellulare» dice «Space Cowboy»...
«Non sono l’esegeta della contromodernità, ma certe emozioni sono più belle se non veicolate da un telefonino che è un luogo senza limite senza fine».