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 2022  marzo 02 Mercoledì calendario

Biografia di Max Tortora raccontata da lui stesso

Max Tortora comincia e non finisce più. Stiamo parlando della sua altezza. Che tipo è? Abbiamo un aiuto d’eccezione, lo descriviamo con le parole di Carlo Verdone, di cui è amico e con cui ha lavorato: «Max è un uomo che ha dei colpi di genio assoluto, che non ti aspetti e arrivano quando sono slegati dal contesto. Si astrae, si incupisce, poi se ne esce con una genialata che ti chiedi: ma come cavolo gli è venuta in mente? È ipersensibile, solitario, buono, riservato. Uomo d’altri tempi».
Max, quanto è alto?
«Uno e 97».
È l’unico attore che potrebbero chiamare Sua altezza. Per recitare è stato un handicap?
«All’inizio sì, anche se cercavo di non mettere in soggezione i colleghi, pian piano ho evitato che diventasse una caratteristica, non mi sono mai connotato per l’altezza in un film. Ho fatto un lavoro sul corpo, muovendomi non da alto, con una gestualità misurata: se allargavo un braccio diventavo troppo visibile».
In una scena di «Vita da Carlo», la bella serie autobiografica di Verdone, la scambiano per Christian De Sica.
«Lì facciamo noi stessi. Carlo voleva che ci connotassimo attraverso un tormentone. In effetti mi scambiavano per De Sica, e ne ero lusingato. Una volta mi capitò di firmare l’autografo col suo nome. Quando lo riferii a Christian, commentò che abbiamo entrambi l’occhio a vongola. Io non ho problemi di immagine se non mi riconoscono. Carlo mi aveva chiamato prima, in Si vive una volta sola, il film rinviato non so quante volte a causa del Covid. Anche lì traspare il calore della nostra amicizia».
Lei è il primo della seconda fila, ora sta guadagnando molte posizioni, ha un potenziale ancora da scoprire.
«Il primo della seconda fila... Aspetti che me lo segno, lo considero il più bel complimento ricevuto. Però sì, vivo tutto come viene. Ora noto una continuità di lavoro che non avevo».
Come ha cominciato?
«In una discoteca di Roma, dove interruppero la musica per farmi fare l’imitazione di Corrado. Inavvertitamente, ebbi un applauso. Lo considero il mio primo spettacolo. Avevo 18 anni».
Era quello che voleva fare da piccolo?
«Sì, anche se poi ho studiato Architettura. Da piccolo mi dicevo: perché sei seduto sul divano e non sei lì dentro, in tv? Vengo da una famiglia di artisti. Papà faceva il direttore d’albergo ed era di una simpatia unica, se n’è andato troppo presto, per fortuna ha fatto in tempo a vedermi a teatro; papà imitava tutti i colleghi di lavoro, affibbiava soprannomi a chiunque gli capitasse a tiro. Mio fratello è un cantante meraviglioso, ha 57 anni e lo vedrei bene a The Voice Senior, ha l’orecchio assoluto, non deve cercare la nota, cosa che gli invidio molto. Mia sorella canta bene e sua figlia, mia nipote, Manuela Lanobile, si sta facendo un nome, si vede anche su YouTube».
Lei suona il pianoforte.
«L’ho accanto a me, in casa. È come una bella donna, se non gli dai retta non ti si fila più, se lo molli ti molla, ti dice: cosa pensi, che dopo tre mesi ti risiedi qui e mi suoni come se niente fosse?».
È vero che voleva diventare direttore d’orchestra?
«Sì. Mi piace Riccardo Muti perché ha una visione globale della musica, umanistica, si capisce che dietro c’è un mondo. E poi al di là della sua severità è un battutista».
Com’è stata la sua prima adolescenza?
«La domenica andavamo a pranzo ai Castelli romani, che era un lusso, a tavola eravamo in tanti, c’era anche zia Giannina. Eravamo felici e non lo sapevamo. Papà ci aspettava sotto casa con le porte aperte della sua Fiat, di cui era orgoglioso. All’andata ascoltavamo Gran Varietà, al ritorno le partite: la radio era assoluta protagonista. Io la radio l’ho fatta, una scuola fantastica, formativa».
Di lì a poco sarebbero nate le sue famose imitazioni.
«Non ne ho fatte tante, non mi sono mai sentito un imitatore, avevo cominciato a farle per allietare i compagni di viaggio nelle tournée teatrali. Si vede che hanno lasciato il segno. Luciano Rispoli, Celentano quando parlava in un romanesco un po’ improbabile si trasformò in un tormentone. Poi Alberto Sordi maturo».
Qualcuno si arrabbiò?
«Ci fu chi si offese perché il mio Albertone con la coperta era un segno di senilità. In realtà era una citazione di un suo film famoso, Io so che tu sai che io so. Mi disse: sei bravo ma è meglio che smetti. Di lui, divenni assistente operatore in Assolto per non aver commesso il fatto. Sul set eravamo a stretto contatto, dava i buffetti a tutti, all’epoca non c’erano le riprese digitali, il girato si rivedeva in una specie di videoregistratore».
I Cesaroni?
«Mi ha portato una popolarità a cui non ero abituato. L’ho capito quando da un giorno all’altro la gente ha cominciato a salutarmi dai finestrini delle auto. Nella lunga serialità c’è il problema di fare sei-sette scene al giorno. Come puoi memorizzare le battute? Ho grande memoria fotografica. Leggo e vado, afferrando il senso di quello che devo dire».
Non ha interpretato solo le commedie di Vanzina e Neri Parenti...
«Mi hanno dato fiducia i fratelli D’Innocenzo in due dei loro tre film, La terra dell’abbastanza e Favolacce. Sulla mia pelle racconta l’incredibile vicenda giudiziaria di Stefano Cucchi; i suoi familiari ci hanno ringraziato per la misura e il rispetto con cui lo abbiamo trattato. Sto notando che c’è una maggiore apertura rispetto al passato, in tanti passano dalla commedia ai ruoli drammatici, c’è trasversalità, siamo più liberi».
Il cinema è meno centrale?
«Per via degli incassi che mancano? Nella mia vita resta un’esperienza fondamentale, io perfino nel minimo movimento delle labbra penso in termini cinematografici».
È uscito dal recinto del caratterista.
«Siccome so dove posso esprimermi meglio, se ci sono cose troppo caratterizzanti le evito».
Lei è stato ospite fisso al programma su Rai2 con Sergio Rubini, Giovanni Veronesi e Alessandro Haber: perché andò così male?
«Forse era la collocazione oraria sbagliata. Però ci siamo divertiti un sacco. Loro non avevano idea di cosa avrei detto».
Max, lei dà l’idea di tenere a bada il suo Io.
«Non ho molti amici veri, uno di questi è Carlo Verdone, ecco, su di lui puoi contare». Si ferma, sorride: «Non solo sui consigli medici, quelli li dà a tanti. Sull’Io, diciamo che mi pongo da osservatore rispetto a ciò che mi accade».
Ha fatto il guardalinee a una partita di calcio.
«Allo stadio Olimpico per gli 80 anni della Roma. Anno 2007».
Anche al guardalinee i tifosi danno del cornuto o è un privilegio dell’arbitro?
«Quella fu una festa, una seratona. C’erano tutti i miei miti. Falcao, Bruno Conti e Picchio De Sisti, Carletto Ancelotti e il bomber Pruzzo. E capitan Totti. C’erano Gigi Proietti, Sabrina Ferilli Lando Fiorini cantò il suo inno e Lino Banfi ai tifosi dedicò una poesia. Io ero guardalinee con Antonello Fassari, l’arbitro era Claudio Amendola».
È vero che la vostra strana terna, al ristorante, mangia sempre gli stessi piatti?
«Con Fassari andavo a mangiare la pizza, con Amendola i rigatoni alla carbonara, con Enrico Bertolino i ravioli».
Va per i 60 anni.
«Ho avuto più di quello che pensavo, rivendico la normalità che è una bella conquista. E continuo ad andare in giro in scooter, il traffico a Roma non so cosa sia. Ma ultimamente, per gli acciacchi dell’età, ho ceduto e ho comprato anche un’automobile. È cambiata la pianificazione della vita, i progetti sono a corta scadenza. Se un amico mi chiede ci vediamo venerdì, gli rispondo sentiamoci venerdì. Navigo a vista, colgo il momento. Se non mi chiamano per un progetto, non vado più nel panico».
Sulle imitazioni ci stavamo dimenticando l’ispettore Derrick e Amadeus.
«Veramente la prima è stata quella di Gianni Morandi: cantavo Scende la pioggia dietro la porta della mia cameretta. Mia madre mi faceva esibire per le sue amiche. Ero timido, avrò avuto dieci anni. L’ho visto a Sanremo e mi è piaciuto molto. Ho adorato Drusilla, la seguo dall’inizio, al Festival ha sdoganato un termine bellissimo: l’unicità di ognuno di noi».
Ma Derrick?
«Beh, in tv io sono cresciuto con Furia cavallo del West, Mork & Mindy con Robin Williams e Derrick: quella sua flemma pazzesca... Ma lui sapeva dall’inizio come risolvere i casi, e poi l’ufficio spartano così lontano dalla ricchezza dei telefilm americani, il colore sgranato... Un giorno mi sono messo un trench e l’ho portato in tv».
E Amadeus?
«L’imitazione di Amadeus... Ero a Otranto, sul lungomare, davanti a un piatto di spaghetti ai frutti di mare, avevo 38 anni e mi stavo cominciando a preoccupare, non arrivavano più proposte. Improvvisamente esclamai con la voce di Amadeus la sua frase nel programma L’eredità: “Siamo arrivati al momento della scossa!”. Portai quell’idea in tv, su Rai 2 a Bulldozer, ed ebbe successo. Nello sketch mi rivolgevo a un malcapitato concorrente con delle domande inverosimili e assurde. Nacque tutto per una improvvisa battuta che mi venne fuori in un momento difficile, davanti a quegli spaghetti».
Si vede che ha ragione Carlo Verdone quando si chiede: ma da dove cavolo gli nascono quelle intuizioni?