la Repubblica, 2 marzo 2022
Pavese-de Martino quasi amici
C’è una storia della cultura, parallela e a volte alternativa, fatta dei libri che non sono mai stati pubblicati, di libri azzoppati, di progetti in nuce; una storia di persone e relazioni che convive con i fatti e in controluce li assevera. La Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici, meglio nota come “Collana viola”, rimane una pietra aliena nel catalogo di Einaudi, un progetto di successo eppure tenuto in disparte – piccole tirature, timida promozione – per timore che certi argomenti suonassero pericolosi o effimeri nell’Italia dell’infinito dopoguerra, della divisione Nord-Sud – l’Italia intellettualmente crociana o gramsciana, di certo satura di ideologia e storicismo. Collana viola vuol dire Cesare Pavese e Ernesto de Martino, due tra i maggiori intellettuali del secolo scorso. Pietro Angelini ha curato ora, per Bollati Boringhieri, un indispensabile volume con l’intero carteggio tra i due, arricchito da altri apparati di pregio.
Il primo vagito del progetto risale al 1942. De Martino si presenta a Giulio Einaudi con tutto il suo ingombro di intellettuale spigoloso. De Martino è impaziente, vuole costruirsi un solido curriculum per spuntarla nei concorsi universitari, visto che non gode di grandi appoggi. È un crociano, anche se già allora sentiva «i limiti e le insufficienze» di quel dettato.
Il fatidico incontro con Pavese è a Roma, qualche mese dopo, nella sede che l’Einaudi ha aperto in via Monteverdi. Hanno la stessa età, sono entrambi nati nel 1908, e di certo ci mettono poco a saggiarsi, nel garbuglio delle reciproche convenienze. Quanto agli studi etnografici, Pavese è un geniale dilettante («ho studiato abbastanza l’argomento ma non ho ancora la competenza necessaria», scriverà al Comitato Einaudi), ma ha aperto un suo fronte di ricerca sul mito del selvaggio e su tutto ciò che rimane primitivo (rifuggendo il pittoresco). «Qualcosa per accadere deve essere già accaduto», scrive sul diario.
Il bombardamento di Roma del 19 luglio congela il progetto. Il 29 maggio del 1945 Pavese scrive. «Caro de Martino, siamo vivi e al lavoro. Vorrei sapere Sue notizie e notizie della Collezione etnografica che faremo». Da qui parte un fuoco incrociato di proposte: liste di autori e progetti. De Martino si muove da censore, e pone spesso questioni di metodo e organicità. Angelini parla di «barca a due timoni, uno a poppa e uno a prua», anche se de Martino è solo un consulente e la decisione ultima è sempre nelle mani di Pavese, che nel frattempo è stato nominato direttore editoriale. Pur con differenze di vedute la coppia mette a punto un programma tra i più innovativi e dirompenti del Novecento, e all’Einaudi qualcuno mugugna, soprattutto l’ala oltranzista (Muscetta, Giolitti e Donini). Pavese viene accusato di raccattare «criminali di guerra» e neopagani (Eliade, Volhard, Hauer, Cogni). «Che l’Eliade abbia fama di nazista fuggiasco non ci deve spaventare », risponde, perché «non può ledere il valore scientifico della sua opera». Anche l’amato Kerényi è considerato scomodo. È un accerchiamento. Muscetta scrive a Einaudi chiedendo «se e quali libri fascisti o di fascisti sono in programma presso la Casa editrice ». Qualche incidente di percorso effettivamente si verifica. Cannibalismo di Volhard, per esempio: il libro esce «mal curato e introdotto da un “elogio” del sangue, nettare degli eroi e bevanda energetica per l’uomo qualunque», ricorda Angelini. Il “Catone” Muscetta perde le staffe: «Non si può lasciar correre libri sui cannibali tradotti da cannibali con prefazioni cannibalesche». A questa sarabanda si sovrappone il cruciale problema delle prefazioni. De Martino vorrebbe che ogni volume fosse accompagnato da «un’introduzione orientatrice che, segnalando i pericoli, operi nel nostro ambiente culturale come una sorta di vaccino definitivo»; teme gli «infatuamenti pericolosi» e ricorda a Pavese che qualcuno – qualcuno del Partito – l’ha definita la “Collana nera”.
La risposta di Pavese è perentoria: «La presentazione unitaria (…) è pressoché impossibile. (…) Tieni presente che le esigenze – ambientare i testi nel milieu idealistico italiano e accordarli con le velleità marxiste dei nostri consulenti ideologici – sono di per sé quasi contraddittorie. Sovente, disperato, io concludo che è meglio darli nudi e crudi e lasciare che i litigi avvengano sulle riviste ». La collana viola si innesta in una riflessione pervasiva che Pavese stava conducendo sulla sua scrittura. Due fatti devono aver giocato un ruolo cruciale sulla sua autostima: la mancata risposta di de Martino al dono dei Dialoghi con Leucò. E un duro commento di Muscetta sui suoi romanzi: «Scrivi troppo, e sempre di amorazzi». A Pavese in quel momento interessava il residuo dell’esperienza primitiva e barbara per risolvere l’irrazionale con «chiarezza simbolica»; de Martino, invece, era animato dallo spirito di rivalsa di un intellettuale che si sentiva sottovalutato, se non ignorato, dal mondo accademico, e soprattutto dal partito comunista.
L’inopportuna e astiosa lettera di de Martino a Giulio Einaudi quattro giorni dopo la morte di Pavese macchiano purtroppo quest’esperienza editoriale. Pavese viene accusato di indirizzare la collana verso «un irrazionalismo, scientificamente errato e politicamente sospetto».
Cosa rimane di quel fervore, di quell’intelligenza binaria? Perché de Martino è così trascurato, anziché, come scrisse una volta Solmi, essere apprezzato e studiato come Adorno o Benjamin? La Collana viola venne spacchettata nelle Edizioni Scientifiche Einaudi, e poi ceduta alla Boringhieri nel 1957. De Martino cominciò a pubblicare con il Saggiatore, anche se rimarrà consulente sottotraccia di Giulio Einaudi.
Passano gli anni e dopo aver letto l’opera completa di Pavese, in una strana corrispondenza con il riavvicinamento a certe posizioni crociane, de Martino consegna il suo pentimento a una poesia: «Restò a me / il gusto amaro / di una pietà troppo tarda / ed il rimorso / di una disattenzione impietosa».