il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2022
Amos Oz padre violento? Le accuse della figlia Galia
Un ricordo, fra i tanti, mi rimane impresso di quella coppia innamorata che furono Amos e Nily Oz. La sensazione di beatitudine che vidi sprigionarsi dagli occhi di lui quando la moglie ci raggiunse nella sinagoga di Casale Monferrato e, sorpresa dalla magnificenza barocca delle sue decorazioni, ruppe il silenzio intonando con voce di soprano il canto di un salmo.
Possibile che quel marito incantato, fosse lo stesso uomo che sua figlia Galia descrive aggredire Nily a schiaffi davanti a lei, usando la destra e la sinistra “come se fosse su un ring davanti a un sacco da boxe?”.
Ho letto Qualcosa camuffato da amore, libro-testimonianza che tanto scalpore ha suscitato in Israele, ora tradotto in italiano da Sarah Kaminski e Maria Teresa Milano, con un disagio accresciuto dal riconoscibilissimo nitore della scrittura, marchio di famiglia. Lei stessa ha acquisito meritata notorietà come autrice di libri per ragazzi. Questo però è un j’accuse sofferente e implacabile. Galia si dichiara vittima di una pulsione paterna a demolire con violenza la sua personalità. “Botte, offese, ingiurie” meticolosamente descritte, finalizzate a sottometterla in una famiglia che si pretendeva armoniosa, per quanto inquadrata nelle ferree regole collettivistiche del kibbutz Hulda. Dove, per intendersi, i figli dormivano separati dai genitori nella Casa dei Bambini.
Galia Oz, divenuta adulta, si è portata dentro una sensazione di disprezzo che soverchiava la severità di quei codici educativi, e giunge a presentare come subdola dissimulazione il fascino del romanziere progressista, coscienza critica di Israele. Tra lei e i fratelli Fania e Daniel, così come con la madre Nily e, finché visse, col padre Amos, era ormai calata una cortina di silenzio. Non si parlavano più. Galia ha giudicato insinceri gli estremi tentativi di riconciliazione dello scrittore. Ha respinto con fastidio gli approcci dei conoscenti che la invitavano a salvaguardare il buon nome di Amos Oz. Dopo la sua morte, ha deciso di scrivere la sua versione di un’infelicità prolungatasi senza rimedio.
Con pacatezza, senza mai rivolgerle parole ostili, in varie interviste Fania e Daniel hanno confutato il ritratto familiare di Galia, con al centro quel padre capace di prepotenza pur di tutelare la sua immagine saggia e ironica. Daniel ha pubblicato una testimonianza di segno opposto. Dopo sette anni di silenzio anche la madre Nily ha scritto un libro, Il mio Amos, che la Feltrinelli tradurrà in italiano.
E noi, ammiratori dei romanzi di Amos Oz capaci di rappresentare la sensibilità femminile fino a impersonarsi in Hannah, io narrante di Michael mio, noi seguaci del suo spirito critico rivolto contro ogni forma di fanatismo, cosa dobbiamo pensare?
Ho letto con comprensione e turbamento il libro di Galia Oz. Anch’io ho avuto un rapporto difficile con mio padre – certo non paragonabile – e ne ho scritto. Sono d’accordo con lei che i panni sporchi non si lavano in famiglia. Rispetto i suoi sentimenti, anche se mi riesce difficile condividere la scelta di esprimerli pubblicamente solo dopo la sua morte. E così, paradossalmente, la testimonianza di Galia mi avvicina ancor di più ai tormenti esistenziali che egli ha saputo trasferire nella sua opera letteraria. In altre parole, Galia non riesce a farmi pensare di aver dato credito a un Amos Oz finto, o sbagliato.
Certo, la prima pagina di Qualcosa camuffato da amore suona come uno schiaffo, al pari di quelli che, lei racconta, almeno una volta si abbatterono su Nily: “Quando ero bambina mio padre mi picchiava, mi insultava e mi umiliava. La violenza era creativa: mi trascinava in casa e mi scaraventava fuori dalla soglia”. È giusto che tali episodi, isolati o sistematici che fossero, vengano accolti nel ritratto della sua personalità. Non si possono prevedere esenzioni a tutela degli uomini di gran fama. Eppure, nel caso di Amos Oz, dubito che basti accontentarci della necessaria distinzione fra l’uomo e l’autore.
Lui stesso, difatti, è riuscito solo in tarda età a sputare il rospo della sua infanzia difficile. La madre Fania Mussman si suicidò quando lui aveva solo 12 anni. E subito dopo Amos decise di rompere il legame col padre Yehuda Klausner, intellettuale fragile fin quasi all’inettitudine, per cercare una vita nuova nel kibbutz. Scelta di rottura drastica, tanto da cambiare il proprio cognome. Aveva già 63 anni quando, nel 2002, si decise a raccontare questa vicenda drammatica nel romanzo che viene riconosciuto come il suo capolavoro: Una storia di amore e di tenebra. Di tenebra ne rimaneva parecchia anche lì, nel kibbutz, dove la vicenda di sofferenza della figlia s’interseca con lo sforzo dell’uomo che cercava riscatto trasformandosi da Klausner in Oz, da ebreo gerosolimitano fragile, figlio di sopravvissuti, a “ebreo nuovo” bello, abbronzato e muscoloso.
Per Galia, quella sua “necessità impellente di marchiare la coscienza, di ‘educare’”, aveva preso la forma di una violenza insopportabile. A lui, se fosse ancora vivo, toccherebbe apprendere che la città ucraina dove sua madre sfuggì avventurosamente alla morte per mano dei nazisti, Rivne, oggi è di nuovo cinta d’assedio.