il Giornale, 2 marzo 2022
Le nuove poesie di Valerio Magrelli
Tra i poeti contemporanei, Valerio Magrelli è certamente tra le voci più riconoscibili. Non tanto per il tono – quel suo atteggiamento sornione -, e per la musicalità dei suoi versi – un allegretto che offre confidenza ma per tenere le distanze. È la lingua a rendercelo immediatamente familiare. Un dettato freddo, quasi distaccato, con un vocabolario tra l’uso comune e quello scientifico. Una poesia che simula la saggistica, addirittura filosofica, che già dal suo esordio nel 1980, Ora serrata retinae, si evidenziava in versi come questi: «Qui arrivano a coincidere/ l’oggetto che cerco e la causa/ di questo ricercare./ Per me la ragione/ della scrittura/ è sempre scrittura/ della ragione». E va notato che il ritmo, con un enjambement, una volta isola il quinario «della scrittura», un’altra volta il quinario «della ragione». Della scrittura e della ragione – che potrebbero anche essere presi per il titolo di un trattato – sono i due termini, i due fattori, potremmo chiamarli, della poesia di Magrelli. Ma di che ragione, di che scrittura si tratta?
Il critico Arnaldo Colasanti, in un recente libro dedicato alla poesia di Magrelli, Polittico del «Sangue amaro» (Quodlibet), ha parlato acutamente di una logica paradossale. Occorre però comprendere cosa significhi davvero questo paradosso attraverso cui in Magrelli la ragione si fonda. Una poesia della raccolta appena pubblicata, Exfanzia (Einaudi, pagg. 126, euro 11 e 50), potrebbe aiutarci: «Mi sento così impaurito e solo al mondo/ che perdo gli oggetti, uno a uno./ Per farmi ritrovare da qualcuno?/ O alleggerisco il carico/ per non andare a fondo?». Ecco, io credo che Valerio Magrelli, attraverso la ragione, cerchi di costruire un’architettura che gli permetta di difendersi dai rischi di quel paradosso. Di fatto, non fa che razionalizzare una paura per non affondare.
Exfanzia, titolo che allude a un’uscita dalla vita, o, per meglio dire, da uno stato nascente del vivere, titolo che vuole creare, per contrasto, l’immagine di un ingresso nella vecchiaia, esteriorizza, più che in altre raccolte questa paura: la manifesta. Ma il modo che Magrelli ha di manifestare la paura non è nell’affronto, nella presa di petto, nell’accettare che la paura possa in una certa misura anche vincere, facendoci conoscere il baratro. Al contrario la paura è manifesta perché esteriorizzata, portata in superficie, resa essa stessa materia per la ragione, «Pensavo di soffrire/ come un criceto in gabbia./ Soffro,/ invece,/ perché sono la gabbia».
È come se con gli anni la poesia di Magrelli avesse creato un’intercapedine, uno spazio vuoto tra la ragione e la necessità che la sottende, che sottende il moto stesso della sua scrittura. Quello spazio somiglia alle «case che uno lascia: vuote voragini», che sono «oscene,/ anzi, ecco,/ oscene, e osceni noi/ a guardarle/ come si guarda un genitore nudo», perché le si è denudate. Allora, la forza di questa poesia è proprio nel suo tenersi in bilico sul precipizio, nel suo tenere lontano il pericolo, nel non finirci mai davvero dentro; nella sua capacità di costruire un riparo, o un rifugio in cui si accumulano o si riciclano oggetti d’uso quotidiano (oggetti che l’orrore della realtà allontanano e che allontanano anche lo spavento della fine del tempo), per non svelarsi mai veramente, così da rivivere ogni volta la medesima tensione, lo stesso allarme – qualcosa, insomma, che riaccenda l’impulso stesso di vivere.