Il Messaggero, 1 marzo 2022
Giappone, la crisi dei negozi h24
Ci sono alcune cose che colpiscono, appena metti piede a Tokyo, più di altre. Le porte automatiche dei taxi (si aprono e si chiudono da sole: non immaginate quante volte mi capiti, quando torno in Italia, di essere insultato dai tassisti perché uscendo lascio la portiera spalancata), i fantastici washlet, i Wc polifunzionali che oltre a avere un getto d’acqua tipo bidet (regolabile in potenza e temperatura) offrono vari servizi, come quello di emettere suoni piacevoli che sopprimono quelli più imbarazzanti. La puntualità generalizzata (non parliamo solo dei treni: in Giappone la puntualità fa parte del Dna della nazione), l’incredibile efficacia del servizio postale (al punto che dallo scorso autunno hanno sospeso le spedizioni da e verso l’Italia, perché i nostri ritardi imbarazzano i loro clienti) sia pubblico che privato: le varie ditte di takkyubin, i nostri corrieri, prelevano e consegnano ogni tipo di pacco ovunque, a costi irrisori. Ma soprattutto, i combini. I minisupermarket aperti 24 ore su 24, dove è possibile trovare tutto, ma veramente tutto quello di cui si può avere bisogno all’improvviso, e magari, nel cuore della notte.
O almeno, questa era la funzione originaria, importata dagli Usa, dei combini, ennesimo esempio di sintesi linguistica di cui i giapponesi sono geniali maestri: combini infatti viene dall’inglese convenience (store), parola che in giapponese non si riesce a pronunciare e che quindi è stata nazionalizzata. Nessun problema, per loro: lo fanno con centinaia di parole straniere. Per noi invece lo è: quanti sono capaci di capire al volo che supootsu significa sport, paruti party e depaato department store, grande magazzino? Ma torniamo al mondo dei combini e all’oramai indispensabile a volte anche troppo ruolo che svolge nella vita quotidiana dei giapponesi. Intanto, alcuni numeri: in tutto il Giappone ce ne sono oltre 100mila, oltre metà dei quali nelle tre grandi città, Tokyo, Osaka e Yokohama. A dividersi il mercato sono 4, più una minore, catene, di cui l’americana 7 eleven è la più potente, con oltre 30 mila filiali sparse nell’arcipelago. L’impero dei combini occupa oltre un milione di persone, oltre il 90% delle quali part-time, termine che in Giappone significa lavorare full-time, a volte anche oltre le 40 ore settimanali, ma senza contributi, ferie, indennità varie, figuriamoci eventuali liquidazioni.
Forse è per questo che la maggior parte del personale, nelle grandi città la percentuale arriva all’80%, è straniero. Ma attenzione, straniero di serie B. Quelli che i giapponesi chiamano, quando sono tra di loro, sangokujin (letteralmente: uomini di paesi terzi): cittadini del sud-est asiatico, medio-oriente, sudamericani. O cinesi, che però vengono chiamati come tali, anche se storpiandone un po’ la pronuncia: ufficialmente dovrebbero essere chiamati chugokujin, di fatto spesso vengono chiamati shina, che è il termine dispregiativo che i giapponesi usavano durante la guerra, quando per qualche anno occuparono parte della Cina. Gli stranieri di serie A, che nei combini al massimo vanno a farci la spesa, di certo non ci lavorano, si chiamano gaijin e sono gli stranieri bianchi: ma attenzione, solo i bianchi europei e nordamericani. I russi, che sono un po’ una new entry, sono russi (rosshia-jin) e non si è ancora capito se sono in serie A o serie B. Senza fissa collocazione sono i neri: per loro non importa la nazionalità, conta il colore: sono kokujin, cittadini neri, appunto.
Ma torniamo ai combini. Il loro fatturato è uno dei pochi che cresce di anno in anno, anche e soprattutto durante la pandemia. Nessuna restrizione, nessuna chiusura anticipata. Il successo dei combini, che secondo alcuni sociologhi ha contribuito ad avviare il processo di de-socializzazione da tempo in atto in Giappone e bruscamente accelerato in questi due anni di pandemia, si fonda sull’abbondanza dell’offerta, il suo continuo adeguamento alla domanda (i manager delle filiali devono prendere nota dei prodotti che i clienti chiedono e che non sono disponibili: superate un certo numero di richieste, il prodotto arriva negli scaffali) e l’efficienza dei suoi servizi aggiuntivi. Nei combini, oramai da anni, non si acquistano solo a buon prezzo beni di prima necessità, ma si pagano le bollette, si stampano foto e documenti, si acquistano biglietti per treni, aerei, eventi sportivi o culturali, si possono spedire e ricevere pacchi, usare le toilette (sempre pulitissime) e in alcuni addirittura frasi una doccia.
Un mondo che tuttavia comincia a scricchiolare. Da alcuni mesi le catene più importanti, 7-Eleven e Family Mart, hanno cominciato a ridurre l’orario di apertura: anche se part-time e senza contributi, le ore notturne vanno comunque pagate di più ed avendo i combini margini ridottissimi risparmiare sui costi di gestione fa comodo. Dopo lo sconcerto iniziale, con polemiche sui social e addirittura il tentativo (fallito) di organizzare una campagna di boicottaggio, sembra che l’iniziativa abbia avuto successo, e pian piano anche le altre catene si stanno adeguando, anche se il numero di combini ad orario ridotto sono ancora molti pochi e per la maggior parte periferici. Alla questione ha dedicato di recente un editoriale il quotidiano finanziario Nikkei: Riteniamo sia un’ottima iniziativa: oltre a ridurre i costi di gestione e rendere più umani i turni scrive il Nikkei – potrebbe risvegliare nei cittadini la voglia di fare: trovando i combini chiusi, magari ricominceranno a cucinare, ad andare alla posta, in banca, dal fruttivendolo. Chissà.