il Giornale, 1 marzo 2022
La Germania negli anni Venti
Fra le possibili incarnazioni degli anni Venti in Germania, quando la Repubblica di Weimar sta per finire e il nazionalsocialismo si prepara a trionfare, la più iconica è la Marlene Dietrich dell’Angelo azzurro, cappello a cilindro e calze a rete; la più spensierata è la vita di Ruth Landshoff, ebreo-tedesca, attrice, ballerina, giornalista, scrittrice, nobildonna e donna di mondo; la più cupa è l’esistenza di Gottfried Benn, medico e scrittore, una moglie morta, una figlia lontana, un fratello in carcere, un’amante che si è appena tolta la vita: «È morta di me, come si suol dire, o per causa mia».
Ognuna a suo modo, smentiscono nell’insieme l’idea corrente che in quel decennio il cuore fosse soltanto un muscolo e il romanticismo nient’altro che un relitto confinato nell’Ottocento aristocratico e borghese. Era un decennio che si voleva cool, la freddezza a ogni costo, il pittore Max Beckmann che si ritrae impassibile in smoking, Ernst Jünger che imperturbabile osserva il mondo avvolto nel suo colletto di pelliccia e chiede «una letteratura sottozero», Otto Dix nei panni di un esploratore polare, George Grosz che paragona il suo animo a una «banchina artica», Bertold Brecht con i suoi giacconi di cuoio e la sua «lode alla freddezza». Come riassumerà Lisa Matthias, l’amante in carica dello scrittore Kurt Tucholsky: «Eravamo tutti figli della pace fredda tra le due guerre, tutti così, appunto freddi, indifferenti a ogni cosa, perché sapevamo che un giorno, presto o tardi, sarebbe tutto andato a rotoli di nuovo». Eppure, in quella gelida attesa, che sarabanda indiavolata di amori e di intrecci, di suicidi per amore e di fughe d’amore, di sfrenatezza dei sensi, certo, ma sempre e comunque nella speranza di trovare un porto dove approdare, al sicuro e insieme pacificati.
Sarà stato anche vero che, come ammoniva da vecchio Sigmund Freud, «la sessualità è una delle occupazioni più pericolose per l’individuo», ma è il sentimento a tenere banco in quello che è per eccellenza il decennio più decadente di un Novecento che sembrava voler demolire ogni coordinata etico-estetica. Come riassumerà Erich Marie Remarque, l’autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale: «Siamo figli di un’epoca confusa, abbiamo tutti nel cuore così poco amore per noi stessi, così poca fiducia in noi -troppa audacia e troppo poca speranza. Ottusi soldatini della vita, figli di un’epoca confusa con un sogno, a volte, la notte». Eppure, più che al disincantato Remarque è al tragico Benn che conviene prestare orecchio: «Chi parla di vittoria? Conta reggere l’assalto». E ancora: «Vivere è gettare ponti/sul dileguare di correnti».
In L’amore al tempo dell’odio (Marsilio, traduzione di Francesco Peri, 375 pagine, 19 euro), Florian Illies costruisce un ambizioso quanto esaustivo mosaico di un’epoca di fermento, incerta sul proprio futuro, in fuga dal proprio passato, condannata a un presente da bruciare fra prese di posizione e compromessi, matrimoni fittizi e matrimoni d’amore, avventure, droghe ed ebbrezze, drammi, lutti e illusioni perdute. Pur se il centro nodale del libro è Berlino, i suoi caffè, il suo cinema, la sua musica, i suoi vizi, molti, le sue virtù, meno numerose e soprattutto meno esibite, Illies spazia da Parigi a Capri, dalla Costa azzurra alla Costa basca e affianca alla schiera di nomi celebri, e di nomi dimenticati, di quella Germania che nel 1933 si schianta contro il muro di cemento del nazismo, il plotone non meno folto di protagonisti inglesi e francesi, americani e spagnoli, da Picasso a Henry Miller, da Salvador Dalì a Jean Paul Sartre, a Hemingway a Scott Fitzgerald. Ne viene fuori una sorta di romanzo corale, a volte persin troppo affollato, e dove il 1933 segna appunto lo spartiacque fra un prima e un poi, quando gli anni ruggenti lasciano il posto ai roghi dei libri, le fughe d’amore diventano espatri clandestini, l’andare all’estero e il restare in patria si trasformano in scelte esistenziali e insieme in scelte politico-ideologiche.
Costruito in un incessante cambiamento di protagonisti e di scenari, con un filo conduttore tropo esteso, «una storia sentimentale degli anni Trenta» recita il sottotitolo, perché il lettore ne possa agevolmente tenere in mano un capo, forse il modo migliore per rendere conto della sua complessità è seguire una sola delle sue storie, paradigmatica nel suo essere lo specchio di tante altre e tuttavia unica nel tipo di scelte che in essa viene fatta, a testimonianza di come le individualità abbiano comunque il loro peso. Sotto questo aspetto, esemplare è quella del già citato Benn, per tutta una serie di motivi che qui di seguito, sia pur brevemente, cercheremo di raccontare.
Il primo elemento distintivo è l’età. Gli anni Venti che nel 1929 hanno il loro corto circuito con il Venerdì nero di Wall Street, vedono un Gottfried Benn quarantenne: non sono troppi, ma in un decennio che brucia la giovinezza con velocità impensata e dove si diffida di chi ha appena raggiunto i trenta ( sarebbe il caso della Dietrich, ma saggiamente lo tiene nascosto), sono più che sufficienti per uno che ha trasformato il suo ambulatorio medico in abitazione e lo ha definito «il suo ospizio per la terza età». Un secondo elemento è che Benn, più che essere un reduce della Grande guerra, ce ne sono molti, ce ne sono troppi, è stato un precursore di tutto quello che è avvenuto dopo, morte, sesso, patologie, espressionismo poetico, il che però non ne fa un contemporaneo, ma un uomo del passato, fulgido, certo, ma lontano e/o estraneo rispetto al presente.
Aver visto le cose con troppo anticipo è spesso una condanna: non ci si appassiona più, non si ha più voglia di intervenire. Benn lo sa, ma lo sanno anche quelli che, arrivati dopo, vogliono essere loro i moderni interpreti del loro tempo. Al momento di tirare le somme su cosa sia stato per lui quel decennio, lucidamente Benn annota nel suo diario: «Vergogna infinita per il mio declino».
Il terzo elemento, il più drammatico, se si vuole, è che Benn dalla Germania non se ne va. La cosa provoca la meraviglia e poi lo sdegno dei suoi ammiratori, in primis Klaus Mann, il disordinato quanto infelice figlio di Thomas Mann, antinazista sin da subito: come fa a restare in un Paese divenuto una prigione di cui Hitler è il carceriere? La risposta di Benn è orgogliosa e insieme ambigua: «Questo è il mio popolo» dice, in Germania «la storia è in muta», mentre non è che sia «particolarmente attiva sulle spiagge francesi» dove Klaus Mann ha trovato rifugio.
Fra i due, quello che ha l’occhio più sicuro è Mann, i nazisti, è la sua profezia, «ripagheranno» Benn «con l’ingratitudine e il dileggio», ma nell’autobiografico Doppia vita quest’ultimo cecherà di razionalizzare il perché di quel suo essere rimasto. Allora, dice, emigrare era stata una scelta personale, non politica, «non una fronda» antihitleriana, più «un’evasione che un’azione», e nel 1933 c’era un governo considerato legale, un parlamento, qualcosa come ventitré partiti e quanto a lui, non aveva mai avuto «niente a che vedere con la politica» Anche noi, continua, «avevamo i nostri ripensamenti interiori, le nostre speranze, abbiamo dovuto lottare contro i nostri dubbi e abbiamo pagato le nostre disfatte interiori ed esteriori»
Per farla breve, Benn resta, ma già nel 1933 viene escluso dalla lista dei medici autorizzati a rilasciare certificati, già nel 1935 ha scelto l’esercito come «forma aristocratica dell’emigrazione», già nel 1936 il nazismo gli rinfaccia proprio quel suo essere rimasto: «Maiale-porcheria-peto-porcheria contro natura, vattene una buona volta, dove stanno i tuoi compagni, Kerr, Tucholsky, Kästner». Mentre lascia Berlino, il suo studio, i suoi amori, annota nel suo diario: «Completamente esaurito, svuotato, urgente bisogno di un cambio d’aria». Il suo mantra, scrive Florian Illies, è «scrivi poco e piangi in sogno» E però, proprio allora, ritorna la poesia, ed è una poesia d’amore, «d’una purezza addirittura sublime» dice ancora Illies: «Sulle tue ciglia spolvero sopore/Sulle tue labbra semino dei baci/Mentre il peso della notte, del dolore/ Porto da solo, e di sogni fugaci». Alla vigilia della Seconda Guerra mondiale e sulle soglie dei cinquant’anni, confesserà all’amico Oelze, l’unico che sia a conoscenza di quel suo risveglio poetico e che custodisce quei versi senza sapere se saranno mai pubblicati: «Farsi una ragione di questo epilogo, di questo sogno tardivo e solitario, nel chiuso della propria interiorità. Ecco la coscienza individuale. E adesso andrà a fondo. Ecco l’autunno, ma non ci spezza il cuore, ci si è spezzata la coscienza -e questo è molto di più».