La Stampa, 1 marzo 2022
Anticipazione del romanzo postumo di Wilbur Smith
Prima di proseguire vorrei proporre un brindisi», disse Saffron Courtney Meerbach sollevando il calice di champagne. «A Gubbins, che ci ha fatto conoscere e senza il quale nessuno di noi sarebbe qui oggi.»
«A Gubbins!», replicarono in coro le altre cinque persone sedute intorno al tavolo del piccolo bistrò francese.
Si erano riuniti lì su invito di Saffron per celebrare i bei tempi andati. Il ristorantino, un loro vecchio ritrovo, era accanto a Baker Street, nel centro di Londra, a un tiro di schioppo dal quartier generale dello Special Operations Executive, l’agenzia di intelligence attiva durante la guerra, per la quale avevano quasi tutti lavorato. Il brigadiere Colin Gubbins era stato il loro comandante.
«Metteva davvero paura, eh?» esclamò Leo Marks, un uomo di bassa statura dal sorriso malizioso. «Ho ancora gli incubi sulla prima volta in cui mi ha fissato con quei suoi occhi. I classicisti fra noi ricorderanno sicuramente il basilisco, il serpente mitologico dell’antica Grecia capace di uccidere con una sola occhiata. Ecco, il caro vecchio Gubbins lo faceva sembrare la Fata Confetto, al confronto». Soltanto uno dei commensali si era unito al brindisi per semplice educazione invece che sull’onda dell’entusiasmo, un uomo alto e dai lineamenti cesellati, con arruffati capelli biondo scuro e la perfetta abbronzatura di una star hollywoodiana. Aveva però le guance leggermente incavate e ogni tanto, negli occhi azzurro ghiaccio, l’espressione angosciata di chi ha visto e sperimentato orrori inimmaginabili. Fra le persone sedute intorno al tavolo, non era l’unico.
«Spiegami una cosa, mia cara» disse con un leggero accento tedesco mentre allungava la mano al di sopra del tavolo per prendere quella della moglie. «Capisco come Gubbins colleghi tutti voi, ma come mai io gli devo la mia presenza qui?».
«Ero nello schieramento opposto».
«Tesoro», replicò Saffron, «è stato Gubbins a spedirmi nel bassopiano germanico settentrionale verso la fine di aprile del ’45 a cercare i nostri agenti scomparsi, fra cui Peter». Peter Churchill fece un modesto cenno d’assenso con la testa mentre lei aggiungeva: «Se non mi fossi trovata là, non avrei mai seguito le tracce dei prigionieri illustri che le ss speravano di offrire in cambio di un trattamento di favore da parte degli Alleati lungo l’intero tragitto verso...». Stava per dire Dachau, ma si fermò per non permettere a quell’incubo infernale di intromettersi nella loro riunione. «Lungo l’intero tragitto attraverso la Germania e nel Tirolo italiano, dove ho trovato te, tesoro, e ho temuto di essere arrivata troppo tardi».
A un tratto fu colta alla sprovvista dal nitido ricordo del corpo scheletrico, devastato e febbricitante di Gerhard steso su quello che sembrava il suo letto di morte. Un groppo alla gola le impedì di proseguire e fu costretta a ricacciare indietro le lacrime prima di riuscire a bofonchiare «Scusate» al resto della tavolata. Si ricompose, trasse un bel respiro e con allegria forzata aggiunse: «Ma non era così, ed è andato tutto bene, alla fine».
Il silenzio calò sui commensali. Ognuno di loro serbava dei ricordi penosi e sapeva come i turbamenti della guerra fossero sepolti appena sotto la superficie, e come il dolore potesse riaffiorare di soppiatto in qualsiasi momento.
Churchill sapeva cosa doveva fare un gentiluomo inglese in un’occasione simile: alleggerire l’atmosfera.
Disse: «Insomma, Saffron, mi sembra che tu ti stia prendendo tutti i meriti riguardo al collegamento Gubbins-Meerbach. In fondo, se io non fossi stato rinchiuso nello stesso campo di concentramento di Gerhard, non avremmo preso parte allo stesso lugubre viaggio in corriera fra le montagne e in tal caso non sarei riuscito a mantenerlo più o meno in vita». Lanciò un’occhiata all’amico tedesco. «Eri conciato davvero male, vecchio mio, ti credevamo spacciato. E io mi trovavo su quella corriera solo grazie alla volontà di Baker Street di continuare a spedirmi nella Francia occupata finché alla fine non mi hanno acciuffato. Quindi la Legge di Gubbins si applica anche al sottoscritto».
«In tal caso sono d’accordo, devo ringraziare anch’io il brigadiere Gubbins», dichiarò Gerhard. «E ti ringrazio con tutto il cuore, Peter. Senza di te sarei morto».
«Non c’è di che, vecchio mio. Chiunque al mio posto avrebbe cercato di aiutarti. Sarebbe stato disumano non farlo».
Gerhard annuì con aria meditabonda. Si accigliò men- tre raccoglieva le idee, e gli altri gli lasciarono il tempo di farlo, capendo che aveva in mente qualcosa. «Eccoci qui a parlare della guerra» disse poi. «Non posso non ripensare alle cose terribili che ho visto. Sapete che sono stato imprigionato, ma prima di allora ho trascorso tre anni sul fronte russo. Sono rimasto a Stalingrado quasi fino alla fine. Ho visto cosa facevano agli ebrei, i plotoni di esecuzione, i furgoni con il gas. Tutti i miei amici più cari sono stati uccisi. A volte mi sento maledetto dal destino per aver dovuto affrontare così tanti orrori, così tanta sofferenza e morte. Ma poi mi dico che sono fortunato, invece, davvero fortunato, perché ho vissuto un miracolo. Sono incespicato fin sull’orlo della tomba, ma non ci sono caduto dentro, sono sopravvissuto».
Guardò gli altri sapendo che avevano sofferto quanto lui, se non di più, e condividevano i suoi sentimenti come la maggior parte della gente comune non avrebbe mai potuto fare.
«E quando mi sono svegliato dal sonno della morte, la prima cosa che ho visto è stata un angelo», continuò.
«Saffron, il mio grande amore. Vorrei proporre un brindisi.
Mi sono chiesto a cosa dovremmo brindare… Alla fortuna, forse, o all’amore o all’amicizia o alla pace… ma preferisco brindare a ciò che ci accomuna tutti…» Alzò il bicchiere. «Alla vita, la più grande benedizione».
Bevvero di nuovo, poi fu servita la cena. La moglie di Peter, Odette, una brunetta snella dagli occhi scuri che fino a quel momento si era accontentata di ascoltare gli altri, parlò con accento francese.
«Sono sicura che capirai, Gerhard, che per me non è stato facile pensare di pranzare con un tedesco…»
«Naturalmente» replicò lui.
«Ma poi Saffron mi ha scritto e ho saputo che vi siete conosciuti e innamorati prima della guerra, e Peter mi ha detto che voi due siete stati prigionieri a Sachsenhausen nello stesso periodo. Mi sono resa conto che sei stato una vittima delle ss proprio come me. Ora ci siamo conosciuti e, be’, capisco come mai Saffron si è innamorata di te».
«Merci beaucoup, madame» replicò Gerhard con un cenno d’assenso.
Odette gli rivolse un rapido sorriso smagliante prima di ridiventare seria e dire, con lo stesso tono formale: «Je vous en prie, monsieur…». —