la Repubblica, 1 marzo 2022
Intervista a Kenneth Branagh
Belfast di Kenneth Branagh è figlio della pandemia. Nei primi mesi di lockdown lo avevamo incontrato, in collegamento via Zoom dalla casa inglese, mentre consegnava alle piattaforme il sul suo film meno riuscito, Artemis Fowl. Ma il regista era già immerso in quello che definiva «il più personale» e che sarebbe divenuto il più importante.
Belfast, appunto. Il passaggio brusco dall’infanzia all’età adulta del giovane Branagh si consuma sulle strade della città che si trasformano, quando soffia il vento dei Troubles, da luoghi di giochi a zone di barricate, mentre la famiglia sarà costretta a trasferirsi in Inghilterra.
In sala con Universal, Belfast ha 7 candidature all’Oscar: film, regia, sceneggiatura, i “nonni” Ciarán Hinds e Judi Dench come non protagonisti, sonoro e brano, Down to Joy di Van Morrison.
Anche con il migliore ottimismo, sette candidature erano difficili da immaginare.
«No. Sono eccitato ed emozionato.
Anche perché nell’era del Covid il film si è rivelato un successo in sala, segnando un’inversione di tendenza. Tante candidature accendono un riflettore potente e parlare di Oscar è un modo di reagire della comunità del cinema che lotta per uscire da una sorta di crisi esistenziale: la sala sopravviverà?».
È già stato candidato cinque volte. Ricordi?
«La prima è indimenticabile. Scendo dall’auto, mi imbatto in Tom Hanks e Rita Wilson, tornavano da Londra, avevano visto a teatro Il giardino dei ciliegi “con un regista interessante che si chiama Sam Mendes e un’attrice molto brava che qui conosciamo poco, Judi Dench…”.
Vado in bagno, perdoni i dettagli, mi ritrovo da un lato Steve Martin e dall’altro Cuba Gooding Jr. La serata continua così, finché dietro le quinte mi si avvicina un tizio con gli occhiali scuri: “Ciao, sono Jack”. Era Nicholson. Una serie di sorprese esplosive che mi hanno stordito».
Alla salvezza della sale contribuisce “Assassinio sul Nilo”.
«Dopo tanti rinvii, una coincidenza fantastica. Il successo di pubblico non era scontato per entrambi.
Assassinio sul Nilo è una celebrazione del cinema attraverso lo schermo da 70 mm. Che può ancora avere la magia di trasportarti, farti evadere non solo nella fantasia, nei sentimenti, ma anche in un luogo che oggi trovo catartico e significativo».
Belfast è ambientato nei “Troubles”, momento politico di tensione: era preoccupato di qualche reazione?
«Se ci pensa, quasi tutti i periodi nella storia del Nord Irlanda sono politicamente instabili. Volevo guardare la situazione attraverso gli occhi di un bambino di nove anni: che ne sa lui della politica? È ciò che vede in una strada che da parco giochi diventa fortezza. Amici che dalla mattina al pomeriggio non gli parlano più. C’è chi cerca di intimidire e reclutare alla lotta lui e altri ragazzini. Questa per lui è la politica, non quella di uomini di mezza età in cravatta che parlano in tv. E questa politica incide sulla vita di un bambino, costretto a passare dall’innocenza a una maturità forzata».
Il film, non solo per il bianco e nero, sembra avere presente la lezione del Neorealismo.
«Moltissimo. Ho visto molti film di Rossellini e di quel periodo. Ho guardato a quella esposizione poetica, in bianco e nero, della vita urbana della classe operaia. Mi ha commosso la recitazione del bambino di Ladri di biciclette, era esattamente quel che cercavo per il mio giovane protagonista».
Il film parla anche di perdita, sentimento
contemporaneo.
«È il riconoscimento di tante perdite, le vite umane, l’identità di una famiglia, della casa, del Paese. A un livello più profondo e semplice, la perdita dei propri cari. Il momento terribile in cui il ragazzino capisce che quei nonni non ci saranno per sempre. Una lezione di vita che non sei pronto ad accettare».
Come ha reagito la sua famiglia?
«Si è commossa. Mi hanno cercato persone che vivevano in quella strada nel ’69. Un signore ricordava che avevo il capo sempre unto perché mia madre mi metteva il burro tra i capelli, un rimedio popolare che non ricordavo. Una comunità si è identificata con la verità emotiva del film».
Che momento è per lei?
«Mia moglie mi ha fatto notare come questo pezzo della mia storia parli del mio amore per il cinema, per i fumetti, di Charles Dickens e Agatha Christie che trovavi nella libreria di tua madre. Allora non sapevo che mi avrebbero formato come artista. Mi hanno portato nel posto più lontano dal ragazzino seduto in sala che guardava un film come a un miracolo di movimento e colori.
Quel miracolo, oggi, mi ha portato fin qui».