la Repubblica, 1 marzo 2022
Intervista a Paola Antonelli
NEW YORK
«Da settant’anni viviamo in una prateria e siamo diventati erbivori, ma ci sono ancora i carnivori e non sappiamo più come gestirli». È un esempio dei dilemmi della nostra epoca che Paola Antonelli, Architecture & Design Director al Museum of Modern Art di New York, affronta nei suoi “Salon”. Occasioni di riflessione, come l’ultimo che ha intitolato Breath, respiro. Perché ci è venuto a mancare, tutto ad un tratto, e non solo per il Covid.
Come sceglie i temi?
«In maniera istintiva, puntiamo sulle idee che ci sembrano giuste. Anche i musei hanno il dovere di essere
good citizen, contribuendo in maniera costruttiva al dialogo. Il primo Salon dopo la pandemia lo abbiamo intitolato Rinascimento o Rivoluzione?. In genere dopo una crisi c’è sempre un rinascimento, magari finanziato da signori che oggi potrebbero essere i Bezos o i Musk; oppure una rivoluzione, in cui il popolo prende ciò che ha imparato e cerca di creare una dimensione collettiva più funzionale».
Quale risposta avete dato?
«Non ci sono mai risposte. I Salon servono a porre le domande e pensare in maniera più costruttiva.
Personalmente, molto spesso è la dimensione di mezzo quella che manca. Sarebbe utile una maggiore responsabilizzazione degli individui. Lasciamo fare troppo a chi detiene il potere. Invece è importante capire che abbiamo un po’ di controllo sul futuro e come cittadini non possiamo essere passivi».
Il Covid ci ha tolto il respiro, e così abbiamo toccato la nostra fragilità. Ci cambierà?
«Sono scettica, penso che lo dimenticheremo».
Ci ha divisi anche politicamente.
«L’America era divisa da prima della pandemia, tra chi ritiene che la libertà individuale sia più importante del bene collettivo, e chi invece la pensa altrimenti. È una spaccatura profonda e tragica, che non si risolverà fino a quando non avverrà un qualche terremoto. Quando sono andata a vaccinarmi al Javits Center di Manhattan ho avuto la sensazione di partecipare ad un evento epico della società, ma poi ho scoperto che era un sentimento disprezzato da gran parte degli Usa. Quando le divisioni diventano così viscerali non c’è più razionalità».
Come si fa a ricucire?
«È un momento molto difficile, di crisi della democrazia, di carnivori che sorprendono gli erbivori, di valori che pensavamo non esistessero più, e invece di colpo tornano in superficie. Lo vedi in paesi come la Cina, la Russia, ma anche gli Usa. Pensavamo che la democrazia fosse il modello vincente, giusto ed eterno, ma è stata un’arroganza. Forse quando la parte della nostra società che oggi è completamente inebetita si sveglierà, avrà la scaltrezza di capire come muoversi. Magari la crisi ambientale aiuterà anche il cambiamento culturale, perché andiamo verso il disastro molto velocemente, e potrebbe accadere qualcosa che farà aprire gli occhi pure a chi pensa di essere nel giusto occupandosi solo del proprio vantaggio personale».
Nel mondo dell’arte che percezione avverte della crisi?
«La democrazia soddisfa ancora il bene di tantissimi individui. Il problema è che non soddisfa alcuni più prepotenti, che perciò sono riusciti a prendere il potere.
Mi viene in mente Tania Bruguera, che ha partecipato ad un Salon portando la testimonianza di come la rivoluzione a Cuba si sia trasformata in dittatura. Negli Usa molto malcontento nasce dal fatto che non c’è più la classe media, obiettivo della mobilità sociale su cui si basava il sogno americano. Sarebbe meraviglioso se solo la mattina ci svegliassimo chiedendoci cosa pensa il nostro vicino con cui siamo d’accordo. Il dialogo sarebbe un’enorme minaccia per la dittatura».
La guerra in Ucraina dimostra che l’indebolimento della democrazia attira le aggressioni dei carnivori?
«Purtroppo è così. Sono diventata insofferente verso tutta questa “eleganza” dei democratici nel mondo, perché in fin dei conti è lo scudo dietro cui nascondiamo la nostra debolezza. Non posso credere che Putin, Trump o Xi facciano il brutto e cattivo tempo. Sono veramente perplessa dal fatto che questa “eleganza”, cavalcare un high horse come si dice qui, sia ancora considerata la maniera giusta per vincere. Non è vero».
Il respiro soffocato riporta anche a Black Lives Matter?
«Il razzismo negli Usa è tornato ad essere una spaccatura fondamentale. Trump ha dato via libera ai sentimenti più bassi e retrivi che stavano nel sottofondo della cultura americana, apologia del razzismo, odio, separazione, portando ad eventi cruenti. C’è sempre stato il problema di Black Lives Matter, però si è acuito in questi ultimi anni. I can’t breathe, la frase spaventosa ripetuta da Eric Garner un sacco di volte mentre otto anni fa un poliziotto lo uccideva, è diventata il simbolo di un soffocamento sistemico dei neri americani».
La mancanza di respiro acuisce anche le diseguaglianze?
«È un’idea universale, che tocca molti ambiti diversi. È importante capire che tutti questi aspetti sono connessi. Dobbiamo pensarli come l’agopuntura, dove agire su un punto si riverbera sugli altri. È una realtà tragica, ma allo stesso tempo ci offre spunti per intervenire».
Visto che i populismi contestano l’autorità scientifica, gli artisti possono subentrare per comunicare la verità?
«Certo, ma il problema sono le bolle. In gran parte del mondo che resiste a democrazia e progresso l’arte viene considerata elitaria. Per fortuna però ci sono tante forme d’arte. Magari i cartoni animati, o l’hip hop, passano il filtro e penetrano nelle menti dei giovani. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che il nostro modo di pensare non è quello di tutti, e se alcune persone non capiscono forse la colpa è nostra, perché non riusciamo a spiegarci».