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 2022  marzo 01 Martedì calendario

La morte di Feltrinelli


La sera del 14 marzo 1972, a Cascina Nuova di Segrate un tale che, secondo la carta d’identità, si chiamava Vincenzo Maggioni saltò in aria mentre stava compiendo un attentato ad un traliccio dell’Azienda elettrica municipale milanese. Il corpo dilaniato dallo scoppio fu trovato da un agricoltore del luogo nel primo pomeriggio del giorno successivo. L’esplosione gli aveva amputato la gamba destra che era finita oltre il perimetro del traliccio. Il cadavere indossava un giubbotto a vento e pantaloni grigioverdi di tipo militare, a brandelli. In tasca aveva un pacchetto di sigarette Astoria con dentro una bomba rudimentale, un calendario tascabile plastificato della parrocchia dei santi Giovanni e Paolo, con l’immagine di una madonna con bambino. In più la foto di un bimbo in un portafotografie assieme a quella di una giovane signora.
Guardando l’immagine della donna, il commissario Luigi Calabresi fu il primo, poche ore dopo il ritrovamento, a individuarne l’identità (Sibilla Melega). E, per induzione, Calabresi intuì a chi appartenesse quel corpo straziato sotto la struttura di sostegno dei fili elettrici. Si trattava di Giangiacomo Feltrinelli. L’indomani i giornali pubblicarono la foto del morto scrivendo ancora che apparteneva a un non meglio identificato Vincenzo Maggioni. A Milano era in corso il XIII congresso del Partito comunista italiano in cui Enrico Berlinguer sarebbe stato eletto segretario al posto di Luigi Longo. Molti, leggendo la notizia di quel fallito attentato, pensarono che potesse essere opera di un estremista di destra intenzionato a disturbare le assise del Pci. Molti, ma non Sibilla Melega, ultima consorte di Feltrinelli, l’ex moglie Inge Schönthal, gli scrittori Letizia Paolozzi e Nanni Balestrini, due leader di Potere operaio, Oreste Scalzone e Francesco Bellosi che il «compagno Osvaldo» (nome di battaglia dell’editore) lo conoscevano bene. Questi ultimi capirono all’istante chi fosse davvero quel Maggioni.
I due esponenti del gruppo della sinistra extraparlamentare comprarono il «Corriere della Sera» all’edicola, videro la foto e per un attimo restarono impietriti. «Ci voltammo, girando l’angolo senza dire una parola», raccontarono in seguito, «appena dentro casa, cominciammo a piangere, un pianto di dolore e di spaesamento… Non potevano esserci dubbi: era Giangiacomo; senza di lui, niente sarebbe rimasto uguale».
Adesso, a cinquant’anni da quella morte, Aldo Grandi ricostruisce Gli ultimi giorni di Giangiacomo Feltrinelli in un libro straordinario pubblicato dalla casa editrice Chiarelettere. Un volume che va ad aggiungersi ad altri scritti dello stesso Grandi su quella delicata fase della storia dell’Italia repubblicana. Un lungo e dettagliato saggio ricco di testimonianze inedite (Adriano Sofri, Giuseppe Zigaina, Scalzone, Bellosi, Giorgio Accascina, Valerio Morucci, Giancarlo Leonelli, Lucilla Albano, Sergio Zoffoli, Paolo Lapponi, Eliseo Spiga, Antonella Feltrinelli d’Ormesson) che impreziosiscono il testo.
Il Feltrinelli di quei giorni del 1972 non è più il geniale editore che ha pubblicato capolavori come Il dottor Živago di Boris Pasternak o Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’amico di Fidel Castro, lo scopritore della nuova letteratura latino-americana nonché di molti altri ricchi filoni letterari. Adesso è un militante politico di estrema sinistra che ha rotto i rapporti con il Pci e (riprendendo una sigla della Resistenza, Gruppi di azione partigiana) ha fondato i nuovi Gap. La sua intenzione, sostiene, è di reagire a un colpo di Stato che ritiene imminente. Già due anni prima, nel gennaio del 1970 ha scritto una lettera al direttore dell’«Espresso», Gianni Corbi, per annunciare che non si presenterà più al cospetto dei giudici intenzionati ad addebitargli questa o quell’azione sovversiva. E, tra le righe, ha lasciato intendere che si darà ad una semiclandestinità. Ma una clandestinità diversa da quella dei primi giovani dell’estrema sinistra che avevano imboccato quella stessa via. Noterà Giovanni Pellegrino – nel libro intervista di Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro (Einaudi) – che mentre i brigatisti della fase iniziale avevano un che di provinciale, Feltrinelli «aveva relazioni e disponibilità di mezzi che lo portavano immediatamente a vivere la sua esperienza in una dimensione internazionale». E a trasformarsi, sempre a detta di Pellegrino, in «un rivoluzionario pronto all’attentato ma anche ad accettare la logica dell’omicidio politico».
Appena viene a sapere della sua morte, la giornalista dell’«Espresso» Camilla Cederna non ha dubbi: Feltrinelli è caduto in un’imboscata. Rende pubblica una lettera manifesto sottoscritta da numerosi intellettuali in cui sostiene che l’editore «è stato assassinato». Un altrettanto famoso giornalista, Eugenio Scalfari, e l’architetto Paolo Portoghesi si dissociano e smentiscono di aver firmato l’appello. Passano pochi giorni e il giornale di «Potere operaio» contraddice la versione della Cederna. «Un rivoluzionario è caduto», scrive il periodico che fa capo a Franco Piperno, stretto interlocutore di Feltrinelli. Feltrinelli è «caduto», precisa la rivista, «in questa prima fase della guerra di liberazione dallo sfruttamento».
Due anni dopo, a chiudere il caso, «L’Espresso» pubblicherà una clamorosa intervista di Mario Scialoja a Günter, braccio destro dell’editore nei Gap, che racconterà in dettaglio come erano andati i fatti. Ernesto Grassi – così si chiamava in realtà Günter, il nome di battaglia glielo aveva trovato lo stesso Feltrinelli per l’assonanza del suo cognome con quello di Günter Grass – dirà a Scialoja che le illazioni su fascisti, servizi segreti, Cia e complotti vari erano «voci brutte e idiote», da ritenersi «diffamatorie».
Perché questa rivendicazione così circostanziata? Da tempo l’arma principale usata contro Feltrinelli era stata quella del dileggio e della denigrazione. In principio lo scherno era venuto dai giovani universitari a cui l’editore si era rivolto per incitarli alla rivoluzione. Era addirittura accaduto al termine di un’affollatissima assemblea nell’ateneo di Roma che gli studenti avessero intonato in coro «A Feltrine’, dacce li sordi». Si seppe poi, racconta Grandi, che a lanciare quegli slogan offensivi era stato un gruppo di militanti legati a «La Sinistra», un periodico diretto da Lucio Colletti (estraneo a quella contestazione in università) che Feltrinelli finanziava, per vendicarsi della sua decisione di non contribuire più a quell’iniziativa editoriale. Ma anche il quotidiano filo Pci «Paese Sera» aveva pesantemente sbeffeggiato Feltrinelli, al punto che un dirigente della casa editrice, Gian Piero Brega, aveva scritto una lettera (privata) al giornalista Ruggero Zangrandi perché intervenisse sulla direzione del quotidiano a che attenuasse i toni.
Federico Umberto D’Amato responsabile del reparto D dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, scrive Grandi, aveva poi commissionato un pamphlet, Feltrinelli: il guerrigliero impotente, che, a detta di un sodale dell’ex editore, Giambattista Lazagna, era stato da lui considerato un «colpo basso». La stesura di quel libretto che conteneva allusioni alla sua vita sessuale, veniva attribuita da Feltrinelli ad un ex dirigente del Pci, Eugenio Reale, uscito clamorosamente dal partito negli anni Cinquanta. D’Amato, racconta Giacomo Pacini in La spia intoccabile (Einaudi), con quel libricino dava l’idea di un Feltrinelli «ricco, debosciato e frustrato», che «usava i suoi soldi per mandare al massacro giovani ingenui senza mai sporcarsi le mani in prima persona». E faceva «subdolamente intendere che in realtà fosse nientemeno che un agente provocatore al soldo della Cia». Tesi dalla quale, riferisce Pacini, si fecero influenzare anche alcuni esponenti del Pci. Soprattutto dopo la sua tragica morte al traliccio di Segrate mentre, come s’è detto, era in corso il congresso del loro partito.
Ma anche nella sinistra extraparlamentare c’era una sorta di diffidenza nei confronti di Feltrinelli. L’editore contattò Adriano Sofri, fondatore di «Lotta continua». «Noi, che ci consideravamo rivoluzionari, giudicavamo Feltrinelli uno stravagante di buona famiglia e gli invidiavamo non i soldi ma la mobilità, i contatti internazionali». I rapporti con lui, prosegue Sofri, furono «sporadici»: «Non avevo un grande interesse a una conversazione politica che a me non sembrava molto stimolante». Al fondatore di «Lotta continua» non sembrava che Feltrinelli avesse «il genio della politica». «Questo era il suo dramma», aggiunge Sofri. Assieme all’altro dramma, quello di «non essere preso sul serio per futili motivi, per la foto che lo ritraeva in pelliccia o in compagnia di Sibilla Melega a un corteo di studenti». Comportamenti che «erano spesso oggetto di lazzi da parte nostra».
Ci furono anche intense relazioni con le Brigate rosse nella loro fase iniziale. Così li ha descritti Alberto Franceschini in Mara, Renato e io. Storia dei fondatori delle Br (Mondadori). «Renato (Curcio) e io ci incontravamo con lui una volta alla settimana ai giardini di Parco Sempione; seduto su una panchina, le gambe allungate, le mani in tasca, lo sguardo al cielo come se cercasse ispirazione, ci sommergeva di discorsi sulla strategia rivoluzionaria, l’esercito proletario, l’Unione Sovietica e il suo ruolo guida». La sua idea di «far saltare i tralicci dell’alta tensione per colpire l’Enel e Fanfani» sembrava ai brigatisti della fase iniziale «quantomeno stravagante». A tal punto che i fondatori delle Br non accettarono – o almeno così dissero – di farsi finanziare da lui. Anche se il loro giornale «Nuova Resistenza» riportava regolarmente i comunicati dei Gap.
Persino chi gli era amico, come Franco Piperno (nome di battaglia Saetta) lo avvertiva che «tra le organizzazioni extraparlamentari anche fuori d’Italia è diffusa un’immagine di te come vacca da mungere». La lettera (che l’interessato non fece in tempo a leggere) – ritrovata in una perquisizione fatta a Fioroni, è riportata nel libro Chi manovrava le Brigate rosse? di Silvano De Prospo e Rosario Priore (Ponte alle Grazie) – contiene un esplicito rimprovero di Franco Piperno a Feltrinelli: «Qualche volta ti nomini dirigente di un’organizzazione che non hai saputo costruire o generale di un improbabile esercito». «La mia ormai lunga confidenza con te», prosegue il dirigente di Potere operaio a bilanciare lo sferzante rilievo, «mi permette di darti atto della tua complessità politica ed umana, che è altro da un Mecenate della rivoluzione». Ma Feltrinelli era convinto che fosse giunta l’ora di dar vita ad una seconda Resistenza. Valerio Morucci che lo conobbe in quel periodo racconta, nel libro Ritratto di un terrorista da giovane (Piemme), di come una volta Feltrinelli gli mostrò un telo in leggerissimo alluminio adatto a riscaldare il corpo e a lui che lo guardava meravigliato disse: «In montagna dove bisognerà rifugiarsi per fare la guerra partigiana sarà un accessorio indispensabile».
Carlo Feltrinelli in Senior Service (Feltrinelli) ha avanzato il dubbio che qualcuno abbia predisposto «il timer con i minuti al posto delle ore». Grandi, pur con toni rispettosissimi nei confronti del figlio dell’editore morto a Segrate, gli fa osservare che lo stesso tipo di orologio, marca Lucerne, «era stato utilizzato anche – e soltanto quella volta – in Grecia il 2 settembre 1970». Allora saltarono in aria Maria Elena Angeloni e uno studente greco cipriota, Giorgio Christou Tsikouris, che stavano per compiere un attentato all’ambasciata statunitense di Atene. Vogliamo pensare, domanda Grandi, che anche in quella circostanza qualcuno aveva – chissà mai perché – manipolato il dispositivo? Non è più probabile che quegli orologi a basso costo fossero privi di affidabilità?
La morte di Feltrinelli, conclude Grandi, «non fu altro che l’inevitabile e, ci sentiamo di aggiungere, giusta fine di un uomo che era disposto a pagare qualunque prezzo e ad adottare qualunque strumento per abbattere l’avversario, quello stesso nemico che, a causa della sua storia personale, albergava da sempre dentro di lui». Un uomo, Feltrinelli, che era stato «troppo giovane per aver potuto prendere parte alla Resistenza» e, negli anni successivi al ’68, «troppo vecchio per scendere in piazza a lanciare molotov». Un giovane adulto di quarantasei anni che molti amici, in quel delicato frangente della sua vita, lasciarono solo.