Corriere della Sera, 1 marzo 2022
Intervista a Richard Haass
Vladimir Putin agisce da solo e se «scegliesse l’escalation non avrebbe ostacoli» dice il diplomatico Richard Haass. «Nessuno sfida la sua autorità».
Ci sono due tipi di guerra, secondo Richard N. Haass: guerra per scelta e guerra di necessità. È una distinzione alla quale il diplomatico americano, presidente del Council on Foreign Relations (il più noto think tank in materia di relazioni internazionali) e già alto funzionario nel Dipartimento di Stato sotto George H. W. Bush, ha dedicato un libro nel 2003. I conflitti combattuti per necessità, come la Seconda guerra mondiale o la prima guerra del Golfo, servono a «difendere interessi nazionali vitali e prevedono l’uso della forza come ultima risorsa», a differenza delle guerre per scelta (gli Usa in Vietnam, in Iraq nel 2003, in Afghanistan dopo la fase iniziale). La storia, nota Haass, insegna che molte guerre per scelta finiscono male: i costi si rivelano superiori alla capacità di trasformare i risultati sul terreno in successi duraturi. Ai sovietici accadde con l’invasione dell’Afghanistan iniziata nel 1979, che si trascinò per dieci anni danneggiando l’autorità dello Stato. Perciò, per fermare Putin nella guerra per scelta in Ucraina, bisognerebbe fargli pagare un alto prezzo.
Quella in Ucraina è ancora una guerra per scelta? C’è chi dice che Putin ha investito così tanto che ormai è una guerra di necessità e si preoccupano che, pur di vincere, faccia scelte estreme.
«Era – e credo che resti – una guerra per scelta. Putin aveva altre opzioni, non credo che i suoi interessi vitali fossero minacciati. È chiaro che il conflitto non sta andando come si aspettava: si sta dimostrando molto più difficile e costoso. Si è trovato davanti una fiera resistenza ucraina aiutata da Stati Uniti ed Europa, sanzioni economiche e il rafforzamento della Nato. Ma è una domanda interessante perché è vero che Putin ha investito molto, incluso il suo prestigio, e ci chiediamo che cosa farà ora. Ha una serie di opzioni di escalation: potrebbe intensificare attacchi e raid in Ucraina, ampliare la guerra e colpire un Paese della Nato, lanciare attacchi cibernetici contro istituzioni finanziarie europee e americane, usare armi di distruzione di massa biologiche o nucleari. Il nostro compito è far funzionare la deterrenza: continuare a rafforzare l’Ucraina, la Nato e le sanzioni per non permettere che Putin vinca, e allo stesso tempo accertarci che abbia una via d’uscita negoziata direttamente con l’Ucraina e indirettamente con Usa e Europa, perché non concluda che la sua unica scelta è l’escalation. La sola altra opzione che riesco a immaginare è che le persone della sua cerchia concludano che le azioni di Putin sono una tale minaccia per il futuro della Russia (e per loro in quanto crimini di guerra) che arrivino a contrastarlo: una sfida interna alla sua autorità».
La catena di comando nel sistema nucleare russo si basa su una concatenazione a tre chiavi: nelle mani di Putin, del ministro della Difesa e del capo maggiore interforze. Possono fermarlo?
«Non vorrei dover mettere alla prova questa eventualità. La cosa più inquietante dell’allerta del deterrente nucleare russo non è che Putin userà le testate ma che potrebbe farlo. Non sono certo che ci sia qualcuno in Russia che può fermarlo: ha talmente aumentato il suo potere e ridotto quello altrui che, se scegliesse l’escalation, non avrebbe grandi ostacoli».
Per anni gli esperti di relazioni internazionali hanno parlato della «teoria del pazzo». Ma questa è la «realtà del pazzo».
«La “madman theory” descrive leader razionali che fingono di essere un po’ folli perché sperano che l’altra parte li trovi così pericolosi e imprevedibili da fare un passo indietro. Ma con Putin un numero crescente di segnali indica che i suoi non siano bluff o minacce, ma azioni. L’ex segretario della Difesa Robert Gates (e ogni funzionario americano abbia conosciuto Putin di persona) dice che non è il Putin che ricordano: che c’è qualcosa di strano, fisicamente o psicologicamente. Perciò dobbiamo contemplare la possibilità che non stia bluffando».
Un sondaggio mostra che il 26% degli americani è favorevole a un «ruolo importante» degli Usa in questa guerra, il 52% ad un «ruolo minore», il 20% nessun ruolo. Che discorso sullo stato dell’Unione farà Biden oggi?
«Questa non è l’agenda che il presidente voleva: pensava di occuparsi di questioni interne, di Covid, cambiamenti climatici, Cina. I presidenti però possono scegliere tante cose: il loro programma, il loro vice, il governo, ma non gli eventi che accadono. Biden dedicherà all’Ucraina una parte sostanziale del discorso, ma dirà anche che il Paese ha bisogno di restare focalizzato sulle sfide interne alla democrazia, salute, economia».
Esiste una dottrina Biden in politica estera? La guerra in Ucraina l’ha cambiata?
«Non sono sicuro che ci sia ancora una dottrina Biden. Se c’è, è cambiata. L’approccio di Biden alla politica estera consiste nel lavorare strettamente con gli alleati in Europa come in Asia. La crisi in Ucraina ha illustrato l’importanza della partnership transatlantica e ha portato alla realizzazione collettiva che l’Europa è riemersa come area geopolitica. Molti in America pensavano che non avremmo più dovuto preoccuparci dell’Europa e che potevamo lasciarci alle spalle il Medio Oriente e concentrarci sull’Indo-Pacifico. La crisi ucraina prova che è un lusso che non abbiamo. Accanto all’Asia, dobbiamo continuare a prestare attenzione all’Europa e al Medio Oriente e dunque, si tratta di un contesto internazionale straordinariamente esigente per gli Stati Uniti e l’Occidente».