Corriere della Sera, 28 febbraio 2022
Intervista a Beppe Signori
«E adesso ci vorrebbe un presidente disposto a scommettere su di me». La battuta di Beppe Signori arriva dopo un’ora di chiacchierata-sfogo, qualche caffè, alcune precisazioni dell’avvocato-amica-alleata Patrizia Brandi e 192 pagine scritte per lanciare uno sguardo da superstite agli ultimi dieci anni di vita e diventate un libro, «Fuorigioco». Il manifesto dell’innocenza riconosciuta da due tribunali, Modena e Piacenza, dopo aver rinunciato, cosa piuttosto rara, alla prescrizione (nel terzo, a Cremona, invece la prescrizione è intervenuta) e per festeggiare la grazia sul piano sportivo. Signori è tornato.
Le scommesse sono al centro di questa intricata vicenda. Lei viene arrestato il 1° giugno 2011 con l’accusa di essere il capo di una banda che combina partite per avere risultati sicuri su cui puntare.
«Io a capo di una banda, come Totò Riina. Solo che è provato che su 70mila intercettazioni o contatti io non abbia mai parlato con nessuno della banda. Come facevo? E senza sim segrete».
Lei era ossessionato dalle scommesse però: celeberrima è diventata quella su quanti morsi servivano a finire il Buondì. La sua fama l’ha danneggiata?
«Sicuramente. Assieme al fatto di essere famoso e di non essere tesserato, la mia “eliminazione” sportiva non recava danni a nessuno, a parte a me, che volevo allenare».
Lei scrive che prima non credeva a quelli che si professano innocenti quando vengono arrestati.
«Sempre pensato “se li arrestano qualcosa avranno fatto”. Poi è successo a me: 1° giugno 2011, sto tornando a Bologna da Roma dove ero andato a trovare i miei figli, mi chiama mia moglie Tina, mi dice agitata che sono venuti degli agenti a perquisire casa. Due poliziotti mi avvicinano alla stazione Termini, non so perché. Inizia un incubo lungo 10 anni. Per un mix di sorte, superficialità, narcisismo mediatico. Condannato senza processo, non uscivo più di casa, provavo vergogna anche se non avevo fatto niente, tutte le volte che la tv ne parlava era come se mi tagliassero una gamba».
Ci torniamo. La vicenda giudiziaria ha rischiato di travolgere la sua carriera, i gol (188 in A, anche qui, aveva scommesso ne avrebbe fatti 200), il Foggia, la Lazio, la Nazionale. L’inizio avrebbe dovuto essere all’Atalanta, però.
«Giocavo nella squadra del mio paese, la Villese, quando mi sceglie l’Atalanta: ho 10 anni. Al primo allenamento vado a Bergamo con la corriera: mi vengono a prendere in stazione, ma al ritorno mi lasciano in strada. Io non so cosa fare, mi spavento, piango. E quando per miracolo torno a casa decido che non voglio più giocare per l’Atalanta».
Subito dopo arriva il provino all’Inter.
«Dura 7 minuti: il portiere fa un rinvio, il pallone mi colpisce in faccia, cado svenuto ma segno. Mi prendono per tenerezza. Poi però puntano su Fausto Pizzi e a 15 anni mi mollano».
Poi Foggia e Zeman.
«Divento attaccante. Anni spensierati. Ci allenavamo in un centro vicino allo Zaccheria. Per rientrare, sporchi, infangati, passavamo in mezzo al mercato, con le signore che facevano la spesa».
Il resto è noto, lei diventa un idolo alla Lazio. Ci sono due screzi nella sua carriera: la lite con Eriksson a Vienna nel ‘97 in Coppa Uefa che sancisce l’addio e il no a Sacchi per giocare «da terzino» la finale Mondiale in Usa. Rifarebbe tutto?
«Con Eriksson sì: mancava onestà, aveva deciso dall’inizio di non puntare su di me, non me l’ha mai detto. Con Sacchi no: oggi direi “gioco anche al posto di Pagliuca”».
Veniamo allo snodo che ha segnato la sua vita: 15 marzo 2011, lei che va all’appuntamento con i suoi commercialisti, dove ci sono Bellavista e Erodiani, loro sì al centro delle combine. Perché ci va?
«L’antefatto: io ero amico di Gigi Sartor. Lui in Cina ha conosciuto degli investitori di Singapore, che non sono però quelli dell’inchiesta scommesse, non c’entrano niente, sono solo di Singapore, vogliono comprare una squadra di B e vogliono spendere il mio nome come futuro allenatore. Mi danno come compenso 32mila euro, che io deposito in Svizzera, con nome, cognome, modulo antiriciclaggio. Per la procura diventa un conto cifrato, sa perché? Perché scelgo di identificarlo con delle cifre. Comunque, vado a quell’incontro per sostituire Sartor. Poi non vedo mai più nessuno».
Ma perché scrive le condizioni della combine? Il famoso «papello», la prova regina per l’accusa.
«Mi chiedono di puntare dei soldi su Atalanta-Piacenza combinata e io rifiuto subito. Così per convincermi che sono gente seria mi dicono: “dai scrivi come va a finire, scrivi a che condizioni si può fare”. Io per non discutere scrivo, metto il bigliettino nella tasca dei jeans e me ne dimentico. Ma è provato che nessuno ha accettato di fare niente. Fosse rimasto nei jeans, il bigliettino sarebbe andato distrutto e non sarebbe successo nulla, invece mia moglie svuota le tasche e il papello sta sul comò per due mesi e mezzo, dove lo trova la polizia».
Lei non ha commesso reati, non ha combinato partite: però sembrava disposto a scommettere su partite combinate da altri, non è grave?
«No, un attimo: io ero disposto a sfruttare dritte, magari di squadre che non volevano impegnarsi. Ma quando sento che sotto c’è qualcos’altro, mi tolgo».
Perché nei processi sulle combine ha rinunciato alla prescrizione ma a Cremona, dove era rimasta l’associazione a delinquere, no?
«Rinunciare alla prescrizione non è banale. Non volevo restare nel grigiore, i miei avvocati precedenti mi avevano proposto di patteggiare, ma sarebbe sembrato ammettere una colpa, ho cambiato avvocati e con Patrizia abbiamo scelto la strada più difficile. Ed è uscito che sono innocente. Perché non ho patteggiato a Cremona? Perché sarei ancora in ballo e volevo tornare nel calcio»
Lei ha avuto un malore piuttosto serio nel 2019.
«Un embolo partito dal polpaccio destro mi ha bucato il polmone. Avevo iniziato a sputare sangue, ero in ospedale, quando è impazzito il cuore. È chiaro che lo stress ha avuto un bel peso: ero nel mezzo della battaglia in cui mi giocavo tutto».
Ora che ha vinto cosa sogna?
«Di allenare i giovani: servono maestri di calcio. Scommettete su Signori».