Corriere della Sera, 28 febbraio 2022
I tartaglioni
Bruno il Bello faceva uscire pazze le ragazze di un secolo fa. Pazze se era in tight con cilindro e bastone, pazze se era strizzato in un giubbetto da promenade, pazze se aveva la pipa in bocca sotto un flat cap o mostrava la camicia bianca aperta sul petto e la smorfia malandrina... Nessuno forse, ai tempi del «muto», ebbe i trionfi di Bruno Kastner. Dandy adorato per l’eleganza, salutato come il Rodolfo Valentino mitteleuropeo, votato nel 1921 miglior attore tedesco, rubacuori al fianco delle attrici più celebri, dalla prima sex symbol Asta Nielsen a Mia May, star di oltre un centinaio di film (tra i quali una serie poliziesca), visse anni d’oro fino a quando, nel 1923, fu coinvolto in una rovinosa caduta in moto. Miracolosamente sopravvissuto ma allontanato dalle luci della ribalta, riuscì per un po’ a reggere il declino e le perfidie sul tipo di lesioni riportate in quell’incidente stradale ma non al debutto nel 1930 in un film sonoro, Das Land des Lächelns, «La terra dei sorrisi»: balbettava. Una catastrofe, per un attore. Già prostrato da dolori e barbiturici, via via più isolato nel mondo che l’aveva visto vincente, ridotto a vivacchiare con meste serate teatrali nelle città termali, una notte di giugno del ’32 non ce la fece più. Tornò in albergo, legò una corda a una trave e s’impiccò.
Quanti furono, nella storia, a togliersi la vita sotto il peso schiacciante nella fatica immensa di parlare con gli altri? Mah... Certo è che le parole ingiuriose («balbuziente di mer...») scagliate giorni fa da un calciatore contro un avversario sono da sempre sale sulle ferite di moltitudini di uomini affetti da balbuzie. Quel «disordine nel ritmo della parola nel quale il paziente sa con precisione quello che vorrebbe dire», spiega l’Oms, «ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni e/o prolungamenti di un suono». Un disordine associato dai tempi più remoti, ricorda l’Accademia della Crusca, ai barbari: «Barbaro. Dal latino barbarus, che è dal greco bárbaros “straniero” nel senso di “balbettante, incapace di farsi capire”».
Una catalogazione a doppio taglio. Lo dice una lettera di Aristotele che consigliava ad Alessandro, scrive Plutarco, di comportarsi coi greci da stratega, con i barbari da padrone «e di curarsi degli uni come amici e famigliari, degli altri come animali e piante». Tesi condivisa ma a parti rovesciate (come scrive l’etnologo russo Mikhail V. Kriukov in Razze e società) dallo storico cinese Ban Gu che nel I secolo d. C. scriveva che, a differenza dei cinesi, «i barbari... tengono i capelli sciolti e chiudono i loro abiti sul lato sinistro. Hanno volti umani e il cuore di bestie selvagge. Portano abiti diversi da quelli usati nell’impero di Mezzo, hanno altri usi e costumi, altro cibo e altre bevande, parlano una lingua incomprensibile... Di conseguenza, un governo saggio deve trattarli come bestie selvagge». Va da sé che Ovidio, esiliato da Augusto a Tomis, oggi Costanza, sul Mar Nero, nell’opera Tristia si sfoga: «Barbarus hic ego sum quia non intelligor illis», qui il barbaro sono io, perché nessuno mi capisce.
Certo è che tra gli affetti da balbuzie, elencati oggi a pioggia (da Anthony Quinn a Tiger Woods, da Alberto di Monaco a Marilyn Monroe, da Joe Biden a Paolo Bonolis!) sui siti web che reclamizzano libri, video, ambulatori, metodi strabilianti, alcuni hanno avuto un peso davvero enorme sulla storia. Su tutti, a leggere il libro dell’Esodo della Bibbia, Mosè. Il quale, ricevuta da Dio l’investitura, tentò di sottrarsi: «“Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore (...) sono impacciato di bocca e di lingua”. Al che il Signore replicò: “Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire”. Mosé disse: “Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!” Allora la collera del Signore si accese contro Mosé e gli disse: “Non vi è forse tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlare bene. Anzi, sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo. Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la tua e la sua bocca e vi insegnerò quello che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te: egli sarà la tua bocca e tu farai per lui le veci di Dio”». Aveva una ferita alla bocca subita da bimbo a causa della prova cui l’aveva sottoposto il faraone facendogli scegliere tra un gioiello d’oro e una brace che il piccolo portò alla bocca perché luccicava ancora di più? Oppure adottato dagli egizi era cresciuto parlando quella lingua madre?
Che le cause della balbuzie lascino ancora margini di dubbio, del resto, è confermato da mille testimonianze. Una per tutte, quella di Mario Vargas Llosa, sepolto anni fa dalle proteste («c’è chi arriva a proporre di bruciare tutte le mie opere») di lettori feriti da un paragone «maldestro» su «balbuzienti ed afasici afflitti da enormi problemi di comunicazione per via del linguaggio rozzo e rudimentale». Un brutto scivolone, ammise su «El País»: «Porgo pubblicamente le mie scuse a tutti i balbuzienti del mondo». Narrò i «nove mesi di inferno» dai salesiani a Lima, tormentato perché parlava «con l’accento dei bambini nati sulle Ande, trascinando la erre e pronunciando la esse come “sc”», e giurando di avere tra gli amici parecchi balbuzienti di talento: «Uno è un filosofo poliglotta che tartaglia soltanto in spagnolo e quando fa lezione in inglese parla in maniera fluida e senza esitazioni».
Una cosa è certa, scrive il romanziere peruviano: «Le balbuzie sono semplicemente un problema espressivo, non legato né all’intelligenza, né all’immaginazione né al talento, come dimostra il fatto che molti grandi della scienza e delle arti fossero balbuzienti». E furono davvero tanti. Il primo a venire in mente, ovvio, è Demostene. Scrive Plutarco, citando Demetrio Falereo che diceva di averlo saputo dallo stesso Demostene: «Per porre rimedio a una pronuncia poco chiara e alla balbuzie e riuscire ad articolare bene le parole, si infilava in bocca dei sassolini e contemporaneamente declamava qualche passo; volendo, inoltre, rinforzare anche la voce, faceva conversazione mentre correva o si inerpicava per qualche salita e intanto, tutto d’un fiato, proferiva discorsi o versi».
Nicolò Cavallaro (o Fontana), nato poverissimo, orfano a 6 anni e ferito alla bocca a 12 da un soldato francese nel «sacco di Brescia» (1512) riuscì a diventare (da autodidatta!) un genio della matematica fino a duellare coi massimi rivali e firmare i propri lavori, come sfida, col nomignolo di Tartaglia. Né era più sciolto San Carlo Borromeo, di cui il biografo Giovanni Pietro Giussano scrisse nel 1610: «Non era molto fecondo di parole, anzi più tosto si mostrava impedito nella favella; ben che alcuni attribuissero ciò ad arte, volendo dire ch’egli premeditasse le parole prima di dirle per guardarsi da tutte i difetti della lingua». E che dire di Alessandro Manzoni, al quale secondo Antonio Stoppani «forse nocquero nelle scuole la timidezza, il temperamento nervoso, e la balbuzie, difetto che, ordinariamente più esagerato nei bambini che negli adulti, si esagera ancor più negli uni e negli altri per effetto della soggezione»? Lo riconosceva lui stesso: «Io la parola la vedo; essa è lì: ma non vuole uscirmi dalla bocca». Al punto che, scrive il biografo, arrivò a scherzarci su declinando all’inizio l’offerta d’un seggio al Parlamento Subalpino: «”Supponete” diceva celiando cogli amici “che un bel momento mi volga al Presidente, e domandi la parola. Il Presidente mi dovrebbe rispondere: Scusi! onorevole Manzoni; ma a lei la parola non la posso dare”».
Colpa di traumi adolescenziali aggravati dall’innocente crudeltà dei bambini? Certo non fu mai innocente la ferocia degli adulti. Basti leggere Svetonio sull’imperatore Claudio, afflitto dall’infanzia da un disordine neurologico: «Se parlava, sia scherzando, sia seriamente, aveva molti tratti ridicoli: una risata sgradevole, una collera ancora più odiosa che faceva sbavare la bocca ben aperta e inumidiva le narici, inoltre una balbuzie e un ondeggiamento della testa che, se era sempre continuo, si intensificava a ogni atto, per quanto piccolo fosse». Col risultato che fu vittima fin da ragazzo di ironie, sberleffi, piccole prepotenze quotidiane: «Se arrivava un po’ in ritardo a cena, otteneva un posto a tavola a fatica e solo dopo aver fatto il giro della sala da pranzo; ogni volta che sonnecchiava dopo il pasto, cosa che gli accadeva quasi sempre, veniva bersagliato con i noccioli delle olive o dei datteri...». Per non citare l’affilata ferocia di Seneca che nell’Apokolokyntosis, satira sulla morte di Claudio, manda l’imperatore appena morto (avvelenato) sull’Olimpo per farlo buttar giù come «mostro» dagli altri Dei.
Pare avere colpito tutti, nei millenni, la balbuzie. Dal re Battos (in greco antico: balbuziente) fondatore della colonia greca della Cirenaica a Luigi II detto il Balbo re della Provenza e dell’Aquitania, dal conte Oliba «Cabreta» signore della Cerdanya (citato nelle cronache medievali perché faticava tanto a estrarre le parole che batteva la terra tre volte come una capretta) all’imperatore d’Oriente Michele II il Balbo, fino a Giorgio VI d’Inghilterra, il padre della regina Elisabetta II, la cui storia è stata raccontata ne Il discorso del re, vincitore di quattro Oscar. Film magnifico che trascurava un dettaglio: anche Winston Churchill, che un giorno esultò «s-s-simply s-s-splendid!» («s-s-semplicemente s-s-splendido») inciampava spesso nella balbuzie. Due su due dei vincitori contro Hitler.
L’aneddoto più delizioso, però, è quello su Luigi XIII, il figlio di Caterina de Medici, narrato da Amerigo Scarlatti sulla rivista «Minerva»: un giorno, mentre era a caccia, Luigi XIII, avendo perduto di vista il falco da lui lanciato un momento innanzi, si volse a un cavaliere seguito che gli si trovò vicino in quell’istante e si mise a gridargli: «L’oi... l’oi... l’oi... l’oi... l’oiseau», per domandargli se vedeva dov’era volato l’uccello. Il cortigiano a cui si era rivolto era il conte di Thoiras, che per la prima volta era stato ammesso a una caccia reale e che, avendo ben capito ciò che sovrano gli domandava, prese subito a rispondergli sullo stesso tono: «Le voi... le voi... le voi... le voilà...» Immaginatevi il re di Francia! Paonazzo. «Per fortuna era sopraggiunto in quell’istante un altro cortigiano il quale fu pronto a dire al re: «Vostra maestà ignora certamente che il conte di Thoiras ha l’onore di essere balbuziente!». Sapete come finì? Fece perfino carriera...