Corriere della Sera, 28 febbraio 2022
Nel regime dell’imprevedibilità
Una delle persone che ho cercato nelle ore scorse per accertarmi che fosse al sicuro è un editor ucraino, Ivan F. Ha risposto alla mia mail inviandomi un link: www.stopputin.net, il sito che raccoglie le iniziative a sostegno del popolo ucraino promosse in tutto il mondo. «Continuate a organizzare marce, mi ha scritto Ivan. Suona un po’ patetico, ma vuol dire molto in questi tempi difficili».Vuol dire molto, sì. Ma non solo per gli ucraini, anche per noi. Testimonia che esiste ancora un senso di giustizia retrostante che ci accomuna, esiste dopo due anni di apatia crescente e dopo che ci siamo lasciati sfinire da divisioni interne spesso insensate. In queste ore il presidente Zelensky sta twittando l’esito di ogni colloquio con i leader degli altri Paesi, occidentali ma non solo. Li ringrazia pubblicamente se c’è stato uno scatto avanti nel supporto, spesso usa le bandiere per risparmiare caratteri. Viste in fila mentre aumentano di numero, le bandiere suscitano un’emozione specifica. È come se attorno al profilo di Zelensky si stesse ricompattando un intero sistema diplomatico. Un intero sistema culturale. Se, alla fine, questa dovesse essere una guerra vinta, contro ogni speranza e non solo dagli ucraini sul loro territorio, ma dal resto del mondo attraverso le sanzioni e gli attacchi informatici e una volontà unitaria di isolare l’aggressore, rappresenterebbe un precedente ineludibile per i conflitti del futuro. E insieme, sarebbe un atto di accusa grave nei confronti di noi stessi, per l’attendismo, o peggio l’inazione assoluta, che abbiamo dimostrato in altri conflitti recenti. Nell’ultimo decennio – e non a causa della pandemia – l’Europa è andata sbandando nella tutela di quelli che sono i suoi valori segnanti, soprattutto a Est. Più volte siamo arrivati a decretarne frettolosamente la fine. Alcuni, per convenienza, l’hanno trattata come un sogno anacronistico o perfino come una zavorra. È essenziale che quegli esponenti politici vengano ora messi di fronte alla responsabilità delle simpatie che hanno espresso, talvolta con orgoglio sfacciato, perché il contesto mutato non è sufficiente a redimerle. Non basta che Viktor Orbán abbia aperto le frontiere ai rifugiati ucraini per riabilitare la sua idea distorta di Europa. Non basta che alcuni nostri rappresentanti si degnino di prendere adesso delle distanze che non avrebbero mai dovuto accorciare. Perché gli eccessi autoritari della Russia che ora vediamo oscenamente in atto erano già presenti, chiari, riconoscibili, se non da prima, almeno dal 2014, e altrettanto lo era l’ostilità verso il principio europeo stesso. Già, il principio europeo. Quindi esiste. Quindi è fatto di qualcosa. Come accade spesso, è chi si trova ai margini, sulla soglia, a ricordarcelo. A rendere quel principio, di nuovo, qualcosa di desiderabile e per cui vale la pena combattere. Noi lo diamo talmente per scontato da ricordarcene solo quando le notizie si fanno così cupe e stringenti da risucchiare ogni energia: nel biennio degli attacchi terroristici, due anni fa esatti, oggi. Nel martirio dell’Ucraina scopriamo che esiste ancora un confine geografico dei nostri valori, che esiste una prima linea di difesa, e che si trova lì. Se ci manteniamo nelle retrovie, almeno per ora, non è solo per mancanza di coraggio, non per tutti almeno. È perché ci sono delle ragioni oggettive per evitare un’escalation rovinosa. Siamo già nel regime dell’imprevedibilità e purtroppo dobbiamo tenerne conto. Ma la presidente von der Leyen che annuncia una risposta, con armi diverse, a una dichiarazione di guerra è già un punto di svolta della storia. L’Europa è più pronta di quanto non si creda, e non è equipaggiata solo di indignazione e pacifismo. È vero, ogni parola pronunciata al sicuro da qui suona un po’ patetica. E tuttavia è proprio questo il momento di pronunciare certe parole svuotate dalla consuetudine, usurpate negli ultimi mesi, e alle quali l’attualità restituisce un senso. Europa. Democrazia. Autodeterminazione. Libertà. L’invasione dell’Ucraina è l’iniezione di vitalità peggiore a cui potessimo pensare, ed è la più forte che sia arrivata all’Europa dal dopoguerra. Nelle battaglie l’identità viene fondata oppure disintegrata. A volte, invece, può essere ri-fondata. La battaglia di Kiev sta rifondando non solo l’identità ucraina ma quella di tutti noi come europei, e lo sta facendo a prescindere dal suo epilogo. Non c’è da meravigliarsi troppo, né da scandalizzarsi. L’appartenenza si riconosce quasi sempre per contrasto, emerge come in un bassorilievo solo quando compaiono le ombre. Pochi giorni fa eravamo proiettati verso il nostro «ritorno alla normalità». Oggi ci ritroviamo con pensieri più anormali che mai. Come prendere in considerazione, ora che la chiamata è stata fatta, di raggiungere in qualche modo Kiev e unirci ai combattimenti. Ma poi ci diciamo che no, sarebbe velleitario. Non sappiamo nemmeno caricare un’arma, non leggiamo il cirillico, finiremmo per essere d’intralcio e basta. Allora ritorniamo su Twitter, dal quale non ci scolliamo da ore, torniamo alle marce in giallo-azzurro e alle donazioni, che non sono molto, certo, ma non sono nemmeno nulla. Se ci occupiamo solo di questo finché non sarà finita, se non c’interessa nient’altro e ci ossessioniamo con le notizie, va bene. Dopotutto ci stiamo occupando di casa nostra. La normalità ritrovata può attendere.