la Repubblica, 28 febbraio 2022
Le ambiguità dell’italiano
Si racconta che un giorno in treno Ludwig Wittgenstein stesse discutendo con Piero Sraffa, uno dei geni nascosti del XX secolo, economista italiano. Mentre il filosofo sosteneva, com’era scritto nel suo Tractatus logico-philosophicus, che il linguaggio debba essere lo specchio del mondo, Sraffa avrebbe messo la mano sotto il mento e fatto il gesto tipico dei napoletani: e chi se ne... Quindi avrebbe domandato all’interlocutore: «Quale è la forma logica di questo?». Dall’episodio sarebbe nata la revisione della prima opera e la scrittura delle Ricerche logiche, in cui Wittgenstein ha formulato l’idea del “gioco linguistico”. Per dirla in modo icastico: ciò che conta è l’uso che si fa del linguaggio. Come fa capire il filosofo, non si può prescindere dagli infiniti usi possibili delle parole.
L’episodio mi è tornato in mente mentre leggevo Senza distinzione (People), l’ultimo pamphlet semiotico di Stefano Bartezzaghi, dove, con molto acume, si prende di petto una delle questioni politiche di questi tempi: quale linguaggio si potrebbe o dovrebbe parlare in una società realmente paritaria?
Non è un tema da poco visti i diversi e contrastanti pareri letti anche su queste pagine, che riguardano due questioni: l’uso della parola “razza” e l’uso dei termini legati al genere. Il libro di Bartezzaghi, molto sobrio e serio, prova con l’aiuto degli strumenti della linguistica e della semiotica a sciogliere alcuni nodi, senza mai perdere quello che è il suo peculiare umorismo. Ora la domanda che si pone davanti alla proposta di espungere dal terzo articolo della Costituzione italiana la parola “razza” è semplice: basterà abolire la parola “razza” per far sparire i razzisti? Per arrivare a questa domanda, che ha una risposta ovvia – naturalmente no! –, Bartezzaghi attraversa il tema degli stereotipi e quello dei luoghi comuni, riprendendo tesi del suo Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social network (Bompiani, 2019).
Non starò qui a riassumere il nuovo libro, anche perché a caratterizzarlo è il tono. Nelle pagine sono citate due autrici che hanno puntato la loro attenzione sulla medesima questione. La prima si chiama Nora Galli de’ Paratesi. Quando era una giovane studiosa nel 1964 scrisse un libro formidabile: Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo (Oscar Mondado-ri), dove ci ha mostrato come l’eufemismo non sia mai stabile. Ad esempio: “casino”, parola poi interdetta, aveva sostituito “bordello”, per poi diventare a sua volta volgare. Oggi non più. In Ricerche filosofiche Wittgenstein sostiene che nella denotazione esiste «una relazione abbastanza stabile tra espressione e contenuto» mentre il livello superiore della connotazione – quello dei sensi estesi – «è sensibile ai cambiamenti storici e sociali ed è assai mutevole». Tutto è relativo ai giochi linguistici che giochiamo.
La seconda studiosa è una psicoanalista, Simona Argentieri. Per anni ha lavorato sul tema dell’ambiguità. Lei ci ricorda che ciò che è oggetto di tabù non scompare, viene solo rimosso, negato; resta «congelato», come riporta Bartezzaghi, e perciò non può essere elaborato, non può evolvere. Una osservazione evidente anche dal punto sociale e politico: perché mai il fascismo e il razzismo del regime mussoliniano non sono scomparsi, ma sono rimasti congelati, per essere scongelati di epoca in epoca, con qualche pausa più o meno lunga? Le razze non esistono, ma i razzisti sì. Loro non si dichiarano mai tali in pubblico, e come nel caso della propaganda contro gli immigrati s’avvalgono di espressioni o ragionamenti razzisti. Bartezzaghi fa una osservazione semplice: gli “zingari” come gruppo non esistono; eppure il nazismo ha sterminato persone classificate come “zingari”. Allora come potremo parlare di questo senza usare le parole che sono legate allo stermino stesso: “etnia” o “zingari”?
La stessa cosa vale per le “streghe”: non esistevano, ma si è creduto che ci fossero; se le nominiamo con questo termine non conferiamo però loro esistenza storica. L’ambiguità è implicita nella lingua stessa, ne è una delle parti sempre presenti.
Per quanto riguarda il maschile e il femminile delle parole, e delle espressioni, l’autore pone una questione non facilmente eludibile: il sesso «è oggi una nozione che sembra aver cambiato la sua definizione primaria». Nel discorso comune il sesso non attiene più alla funzione riproduttiva, definita dal sesso biologico, bensì al comportamento e all’orientamento sessuale. Se nell’ambito biologico, sempre meno importante, vige l’elemento binario (maschile vs femminile), nel caso dell’orientamento e comportamento sessuale non si può imporre invece nessun tipo di categoria binaria. E allora che fare per raggiungere
quella società in cui si parla un linguaggio realmente paritario? La risposta non è facile, anche perché oltre al razionalismo semiotico messo in campo da Bartezzaghi, c’è il problema del rapporto che esiste tra la lingua che usiamo e il regime economico e sociale in cui viviamo, ovvero l’ideologia neoliberista. Il problema dei rapporti di forza che agiscono nel linguaggio, riguardano anche quelli che vigono nel campo sociale e politico.
La parola “ambiguità” viene dal latino e significa “condurre intorno”; il suo significato originario è: “essere discorde”. Il libro del semiologo Stefano Bartezzaghi ci aiuta a pensare e a parlare con più coscienza dei problemi che le nostre parole pongono nel mare magnum dell’ambiguità in cui viviamo immersi.