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 2022  febbraio 28 Lunedì calendario

Zelensky raccontato da Bernard-Henri Lévy


Non so se quando usciranno queste righe Volodymyr Zelensky sarà ancora in vita. Si sa che è a Kiev, circondato dai suoi generali, al riparo in un bunker che i Sukhoi russi stanno cercando. E abbiamo appena visto un video in cui sta senza casco, all’aperto, come un Churchill molto più giovane che cammina per i quartieri poveri di Londra in occasione dei bombardamenti tedeschi nel settembre del 1940. Ma so anche che figura al primo posto della kill list stilata, secondo la stampa inglese, dal Cremlino. E mi torna alla mente l’addio che ha rivolto, venerdì 25 febbraio, ai suoi omologhi incontrati in videoconferenza in occasione del vertice straordinario dell’Unione Europea: «Forse è l’ultima volta che mi vedete vivo».
Che cos’è la grandezza? La grandezza vera, quella grande, come l’ha insegnata la cavalleria europea? Forse è questa. Questo eroismo tranquillo e fiero. Questo aspetto da Allende alla vigilia dell’assalto alla Moneda da parte degli squadroni della morte di Pinochet. Quel modo in cui ha detto a Biden che gli offriva di farlo uscire dal paese: «Ho bisogno di munizioni, non di un taxi». E a Putin, questo Pinochet dei giorni nostri: «Potete provare a uccidermi, sono pronto: perché so che un’Idea vive in me e mi sopravviverà».
*** La prima volta che l’ho visto era il 30 marzo 2019, alla vigilia del primo turno della sua strabiliante elezione, in un ristorante di pesce vicino a piazza Majdan. Avevo appena interpretato, all’università di Kiev, il monologo teatrale Looking for Europe, che all’epoca portavo in giro per le capitali europee. Era il mio amico Vlad Davidzon, uno degli ultimi giornalisti americani che siano rimasti in Ucraina, oggi, che aveva organizzato l’incontro. Volodymyr Zelenskyj era giovanissimo, una sorta di Gavroche in jeans, con scarpe da ginnastica un po’ ammaccate, una maglietta nera dal colletto liso, che aveva passato la notte a festeggiare l’ultima rappresentazione, in una pista da pattinaggio della periferia di Kiev trasformata in caffè-teatro, del Servitore del popolo, lo one man show che lo aveva reso celebre.
Avevamo parlato di Beppe Grillo, quell’altro cabarettista fondatore del Movimento 5 Stelle in Italia, a cui detestava essere paragonato. Avevamo parlato di Coluche, di cui conosceva poco la storia e di cui non comprendeva la piroetta finale, la rinuncia a presentarsi, «forse perché c’era un grande uomo in Francia, monsieur Mitterrand, e non aveva bisogno di sacrificarsi?». Di Ronald Reagan: di lui sapeva tutto; del resto aveva appena fatto la voce fuori campo di una docufiction trasmessa dalla catena 1+1, proprietà dell’israelo-ucraino Igor Koloymoskyj, che passava per il suo “sponsor”, sull’incredibile destino di quel commediante di film western di serie B diventato un grande presidente.
Avevamo parlato di Putin, l’altro Vladimir, che era sicuro, il giorno in cui si sarebbero ritrovati faccia a faccia, di riuscire a far ridere come faceva ridere tutti in Russia: «Io recito in russo, sa; i giovani mi adorano, a Mosca; ridono a crepapelle ai miei sketch; la sola cosa…». Aveva esitato… Poi, piegandosi sopra il tavolo e abbassando la voce: «C’è una cosa, però… quell’uomo non ha sguardo; ha degli occhi, ma non ha sguardo, o se ha uno sguardo è uno sguardo di ghiaccio, privo di qualsiasi espressione».
Ma l’altro argomento della nostra conversazione fu il suo ebraismo. Come avrebbe potuto un giovane ebreo, nato in una famiglia decimata dalla Shoah, nell’ oblast di Dnipropetrovsk, diventare presidente nel Paese di Babij Yar? «Ebbene, è molto semplice», mi aveva risposto con una risata roca: «Ci sono meno antisemiti in Ucraina che in Francia; e soprattutto meno che in Russia, dove a forza di cercare la pagliuzza nazista nell’occhio del vicino si finisce per non vedere più la trave nel proprio; in fondo, non sono state delle unità ucraine dell’Armata Rossa a liberare Auschwitz?».
*** Il nostro secondo incontro fu alla conferenza annuale della Yalta European Strategy, quella mini-Davos ucraina creata dal filantropo Viktor Pinchuk. Come ogni anno, c’erano illustri studiosi di geopolitica, esponenti del governo statunitense, alti funzionari della Nato, capi di Stato europei in carica o in pensione, intellettuali. Zelensky, che a quel punto era diventato presidente, tenne un discorso forte, illustrando nel dettaglio il suo piano di lotta alla corruzione, flagello dell’economia nazionale. E arrivò l’ora della tradizionale cena di chiusura, dove il nostro anfitrione aveva l’abitudine, tra la pera e il formaggio, di offrire una “sorpresa” che doveva essere il clou delle giornate: un anno c’era Donald Trump, all’epoca ancora semplice candidato… un altro anno c’erano Elton John o Stephen Hawking… o la sorpresa, questa volta, della comparsa in scena, di fronte ai tavoli, della troupe d’attori con cui il nuovo capo dello Stato faceva squadra fino alla sua elezione.
Uno faceva l’imitazione della Merkel. Un altro recitava un’immaginaria conversazione su WhatsApp, esilarante e salace, fra Trump e Clinton. Ed eccone un terzo che si era truccato da Zelensky e che, facendo la parte dell’ucraino zoticone che parla male inglese, fingeva di cercare un interprete e indicava, come a casaccio, il vero Zelensky, che senza farselo dire due volte saltò su dalla sedia per raggiungere sul palco i suoi compari.
Questa era dunque la situazione.
Un finto Zelensky che giocava a essere quello vero. Il vero Zelensky che interpretava la parte dell’interprete di quello falso. Quello falso, tradotto da quello vero e che proferiva delle enormità che l’altro era costretto a tradurre e che lo mettevano in ridicolo. Insomma, uno spettacolo inaudito.
Il caso senza precedenti del presidente di un Paese in guerra felice di giocare con il suo doppio e di scambiarsi i ruoli con il suo sosia. E la sala che di fronte a questo qui pro quo, questa indistinzione gioiosa tra originale e copia, di fronte a questa autoliquidazione di un presidente inghiottito dal suo avatar, esitava fra il riso, il disagio e lo sbalordimento. Zelensky, quella sera, era Woody Allen che ci invitava, come ne La rosa purpurea del Cairo, dentro al suo film, o meglio dentro alla sua serie. E quando, al termine dello show, andai a chiedergli cosa avrebbe potuto pensare Putin, da Mosca, di quel nemico che scompariva dietro alla sua maschera e accettava di tramutarsi nel proprio simulacro, mi diede questa risposta: «È vero! La posa comica è sicuramente sconosciuta nel repertorio di base dell’Fsb! Ma il riso è un’arma ed è un’arma fatale per gli uomini di marmo! Chi vivrà vedrà…».
*** E poi ci incontrammo ancora, l’anno scorso. Io rientravo da un reportage nel Donbass dove avevo risalito le linee del fronte, da Mariupol a Lugansk, insieme alle truppe speciali del nuovo esercito ucraino. E mentre i miei fotografi, Marc Roussel e Gilles Hertzog, avevano disposto sul tavolo del salone di gala dove ci riceveva alcuni dei loro scatti migliori, uno Zelensky completamente diverso si rivelò sotto ai nostri occhi. In una delle foto, scattata a Novotrojc’ke, allo sbocco di un cunicolo rudimentale e a zigzag che sembrava uscito dritto da una Verdun gelata, riconosceva il generale Viktor Ganushchak, capo del X battaglione della brigata d’assalto di montagna. In un’altra, scattata nella zona di Miroljubovka, vicino a Donetsk, commentava, rivolto al suo consigliere Andrej Jermak, alla sua destra, la vulnerabilità di un’area di tiro dove erano posizionati, come mostri d’acciaio preistorici, tre cannoni da 155. Sulla terza, scattata non lontano da Donetsk, in una strada sventrata della città fantasma di Pisky, conosceva il numero esatto di valorosi che, sepolti nel fango e nella neve, tenevano ancora la linea del fronte. E poi, a Zolote, vicino a Lugansk, in un dedalo di trincee fatte con un assemblaggio di tavoloni piantati nella terra nera, conosceva per nome, perché li aveva appena passati in rassegna, la maggior parte dei Rambo armati fino ai denti, il viso colore della terra o coperto da un passamontagna, che montavano la guardia a intervalli di dieci metri e sembravano ipnotizzati dalla terra di nessuno davanti a loro. Volodymyr Zelensky sapeva, quel giorno, che Putin aveva deciso di farla finita con l’eccezione democratica ucraina e con lui? Aveva capito che alla fine non avrebbe mai riso con quell’uomo dagli occhi freddi e dall’anima di assassino?
L’idea, in quel momento, si impose come un’evidenza. Capii che l’ex clown, l’attore, l’artista delle gag e del cabaret di cui avevo creduto di ritrovare la natura profonda in quella cena di gala a Kiev, si era tramutato in condottiero di guerra. Lo vidi entrare nella compagnia esemplare di quelle donne e quegli uomini, dalla Spagna repubblicana a Sarajevo e al Kurdistan, che ho venerato per tutta la mia vita, perché non sono tagliati per quel ruolo, che gli cade addosso come un cattivo destino, ma riescono ad assumerlo con bravura e imparano a fare la guerra senza amarla. E nella sua silhouette leggermente appesantita, sui suoi tratti da giovane Barra divenuto Danton, ho visto levarsi il resistente il cui coraggio, oggi, lascia il mondo stupefatto.
*** Zelensky può vincere. Quest’uomo che preferisce morire con le armi in pugno che subire il disonore di una resa imposta, questo finto comico che ieri sembrava dire «tutto è perduto fuorché l’onore» e che questa mattina, dopo una nuova notte di bombardamenti, trova la forza di arringare il suo popolo e di dirgli che resta un popolo libero, è già adesso l’incubo di Putin; se ci decideremo ad aiutarlo, vale a dire a consegnargli i cannoni, gli aerei e le difese di cui ha così drammaticamente bisogno, potrà divenire colui che lo farà cadere. Sul suo volto di insonnia felice e di fiducia in mezzo al tormento, in quell’umorismo da cui non si separa neanche mentre piovono i missili, c’è qualcosa delle figure leggendarie del ghetto di Varsavia. Che gli dei siano con lui: perché il mondo libero, che si gioca anch’esso il proprio destino nella battaglia di Kiev, ha trovato in lui un eroe e l’Europa dei principi un nuovo e magnifico padre fondatore.
Traduzione di Fabio Galimberti