La Stampa, 28 febbraio 2022
Un inverno arido
«Loietto», si chiama così. È un’erba tenera, una graminacea da foraggio. La semini a settembre, la falci in primavera quando è alta almeno settanta centimetri. Due mesi nei capannoni a asciugare, prima di diventare fieno: cibo per le bestie. È sempre stato un rito, nei secoli dei secoli: semina, raccolto, cibo, vita. Giovanni Bedino, 61 anni, imprenditore agricolo di Cervere, nella pianura fra Cuneo e Torino, per la prima volta quest’anno osserva la natura andare al contrario, contro se stessa: «I campi di loietto sono tutti seccati, la terra è arsa. Dura, senz’acqua nemmeno in profondità. Le piantine non hanno attecchito, sono volate via. Morte tutte. È qualcosa che mi preoccupa tantissimo. Per la prima volta ho dovuto fare due scelte che non avevo mai fatto». Giovanni Bedino ha dovuto seminare di nuovo a febbraio, e poi dare acqua ai campi del loietto in questi giorni, si chiama irrigazione di soccorso: «In 45 anni di lavoro non avevo mai bagnato a febbraio».
Cosa si vede da qui? Cosa si vede da questa piana al riparo della montagne, al confine francese, terra di campi di mais e di capannoni agricoli, terra di trattori, di bestie e di silenzi? Non è la Langa dei turisti. È una terra che non è altro che il suo lavoro quotidiano. «Arriviamo da un anno assurdo, terribile. E anche questo si annuncia molto preoccupante», dice il signor Bedino.
L’estate del 2021 è stata una delle più siccitose di sempre. Ha distrutto metà del raccolto: mais, grano e foraggio. Il raccolto è andato perduto, semplicemente, perché è mancata l’acqua. «Un anno così forse lo puoi reggere, ma non più di uno», dice amaramente il signor Bedino toccando la terra con le dita. Metà raccolto, cioè: metà guadagni. A fronte del più alto rincaro delle materie prime che si sia mai registrato. «Il gasolio per i mezzi agricoli della mia azienda costava 30 mila euro all’anno, ora siamo a 60 mila. Raddoppiata l’elettricità. Il concime costava 35 euro al quintale, ora te lo danno a 90 euro. Come i fertilizzanti, che derivano dall’azoto e quindi dal gas. Gas che costa uno sproposito. Ce ne accorgiamo anche quando portiamo il mais negli essiccatoi».
L’espressione «combinato disposto» è brutta ma rende l’idea, ecco cosa sta succedendo nei campi italiani: tutto costa di più, mentre manca la materia prima per la produzione. Manca l’acqua. La terra si spacca sotto gli stivali dei contadini. A gennaio ci son state giornate con 23 gradi. A fine febbraio la notte è scesa a -3. Ieri a pranzo c’erano 19 gradi al sole. È la situazione più difficile da gestire. E se le coltivazioni partono con poca acqua, crescono atrofizzate, combattono per resistere ma non proliferano. «Ormai iniziamo a vedere gli effetti del cambiamento climatico e fanno paura», dice il signor Bedini. «Magari arriverà qualche nevicata tardiva in montagna, ma è la neve di dicembre quella che resiste e viene giù a valle in primavera, quella che noi usiamo per irrigare i campi. Non è la stessa cosa».
Nell’anno dell’inflazione e della grande siccità anche il prezzo del mais è salito alle stelle. Veniva venduto a 20 euro al quintale a settembre, ora oscilla fra 27 e 28 euro. Ed è proprio questo prezzo a tenere in equilibrio il sistema. Costi di produzioni abnormi e danni climatici permanenti, in cambio di un prezzo di vendita più alto. Il mais vale di più, così come il grano e i cereali. Ed è qui, a questo punto, che la storia delle campagne italiane incrocia i destini delle campagne ucraine, abbandonate sotto i bombardamenti russi. «Ho sempre sentito quella frase sull’Ucraina, il granaio d’Europa», dice Giovanni Bedino. «Non possiamo competere. Produciamo troppo poco in confronto a loro. Adesso il mio mais costa di più e quel sovrapprezzo mi tiene i conti in equilibrio, ma ho già sentito diversi lavoratori delle fasi successive, come pianificatori e ristoratori, che sono in difficoltà. Il mercato è strano, imprevedibile. Siamo tutti in allarme».
Le montagne senza neve, i fiumi svuotati da questo inverno secco. Le temperature miti che hanno svegliato le coltivazioni in anticipo. Così il sud dell’Italia ha larghe zone a rischio di desertificazione, mentre la Pianura Padana vede nascere coltivazioni già inaridite. Orzo, frumento e loietto iniziano la fase di accrescimento in piena siccità. Sono sfasature temporali. Come le fioriture precoci degli alberi da frutto, che rischiano di compromettere il raccolto. «La siccità è diventata la calamità più rilevante per l’agricoltura italiana con danni stimati in media in un miliardo di euro all’anno, soprattutto per le quantità e la qualità dei raccolti», dice senza mezzi termini Ettore Prandini presidente nazionale della Coldiretti. Ecco quindi un primo, provvisorio, bilancio del disastro climatico in atto.
Sono le piccole storie di questi giorni a indicare quello che accadrà presto su larga scala. Per esempio: tredici comuni della Valsesia hanno appena chiesto ai proprio cittadini di non sprecare nemmeno una goccia d’acqua. Nell’ordinanza c’è scritto che ci sono soltanto due usi consentiti, «alimentare e igienico», in tutti gli altri casi multe «fino a un massimo di 258 euro». Perché sono diminuite le portate delle sorgenti in ingresso ai serbatoi degli acquedotti comunali. E quindi, se il mio vicino lava l’auto o innaffia le rose, io rischio di non avere acqua da bere. Ma come si concilia questa necessità di risparmiare ogni goccia con la grande sete delle campagne italiane? «È da trent’anni che sento parlare di invasi, di nuove cisterne, della necessità di non sprecare l’acqua», dice l’agricoltore Giovanni Bedino. «O ce la facciamo questa volta, con tutti i soldi in arrivo dall’Europa. Oppure non ce la faremo mai più». Per esempio, questa piccolo naviglio di Cervere. Adesso porta l’acqua della poca neve che si è sciolta e si sta sciogliendo sulle montagne del cuneese. Ma la porta troppo presto. Quindi si perde, va sprecata. Mentre mancherà a maggio, mancherà in estate. Il clima in Italia è cambiato più velocemente di quanto gli italiani siano stati capaci di prenderne atto e correre ai ripari.
Cosa si vede da qui? Un futuro di piccoli coltivatori soccombenti. Si vede la guerra per l’accaparramento dell’acqua. Si vede la riconversione di certe zone di bassa montagna da turistiche in agricole, già qualche agricoltore ha incominciato a salire per cercare un po’ di fresco e trovare l’umidità che manca alle coltivazioni. Ha ragione il signor Bedino, i soldi in arrivo sono l’ultima chance. Coldiretti: «Per risparmiare l’acqua, aumentare la capacità di irrigazione e incrementare la disponibilità di cibo per le famiglie bisogna realizzare subito una rete di piccoli invasi con basso impatto paesaggistico e diffusi su tutto il territorio».
Come mettere fuori dalla finestra dei secchi. Per non perdere il bene più prezioso. Questa è la situazione. L’agricoltore Giovanni Bedino, 61 anni, al lavoro da quando era un ragazzo di 15 anni, 60 ettari coltivati a mais e 60 ettari coltivati a grano, lo sa bene. Non è più il tempo delle parole. Lo ha capito guardando i campi inariditi del loietto. «Che disastro! Non piove da due mesi. E quando arriva la pioggia, ormai lo sappiamo, arriva troppo forte: butta giù alberi secolari. Gli alberi dei nostri nonni e dei bisnonni. Gli alberi che stavano lì da sempre». —