il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2022
Lo sport nelle mani del “private equity”
A Wall Street, un tempo, chiamavano “barbari” quei fondi di private equity che largheggiavano in “leverage buyout” (acquisizioni a debito). Proprio questi fondi negli ultimi anni hanno investito oltre 13 miliardi di dollari nello sport (report Enca). Calcio, basket, pallavolo, motociclismo, rubgy, automobilismo, arti marziali: l’industria sportiva piace ai nuovi barbari. Il mondo del pallone, anche se con leggero ritardo, coi bilanci svuotati dalla pandemia è territorio di caccia: negli ultimi giorni la famiglia Percassi ha ceduto il 55% dell’Atalanta a un gruppo di investitori guidato da Stephen Pagliuca, managing partner e co-proprietario deiBoston Celtics e co-chairman di uno dei più importanti fondi di private equity al mondo, Bain Capital. Nel luglio 2018 era stato il fondo Elliott Management a prendersi il 99,93% del Milan, quando il precedente proprietario Li Yonghong non aveva rimborsato un debito di 415 milioni di euro proprio al fondo Usa.
Non è un caso che si tratti di due investitori a stelle e strisce: sono statunitensi infatti i fondi di private equity più attivi nello sport. All’estate 2021, ad esempio, risale l’acquisto da parte di Dyal Capital Partners di partecipazioni passive in alcune squadre di basket Nba: anche la lega sportiva più globale ha sofferto il Covid e ancor di più la contrazione dei fondamentali ricavi cinesi iniziata nel 2019. La prima franchigia a far entrare un private equity sono stati i Phoenix Suns, reduci dalle Finals perse dello scorso anno e oggi in testa alla classifica Nba. Ad oggi l’operazione più significativa risale però al 2016: la vendita per 4 miliardi dell’Ufc (The Ultimate fighting championship) – la più importante organizzazione mondiale di arti marziali miste (Mma) – al consorzio guidato dall’agenzia Endeavore che include 3 fondi di private equity tra cui Kkr.
Ma da dove nasce l’interesse di questi investitori per il mondo dello sport? “Col coronavirus le società hanno registrato un crollo dei ricavi e da questa situazione di crisi si sono generate delle opportunità, perché gli asset svalutati sono diventati più appetibili per investitori che già in passato avevano mostrato interesse per questo settore”, spiega Francesco Bollazzi, docente di Corporate Finance all’Università Cattaneo e direttore dell’Osservatorio Private Equity Monitor.
Ovviamente la spinta a buttarsi nello sport sta nella ragion d’essere ontologica, diciamo così, dei fondi di private equity: capitalizzare e ottenere guadagni. Il Covid, come detto, gli ha dato una spintarella in direzione del calcio: “Prima le società sportive, in particolare quelle calcistiche, erano considerate come un buco nero per le finanze di presidenti e famiglie proprietarie. Con l’ingresso dei private equity la gestione cambia completamente: i fondi hanno la capacità di rendere le società più efficienti, possono ottenere credito a condizioni più vantaggiose e, soprattutto, riportano un allineamento di interessi tra il management e la proprietà, perché spesso il management ha quote nel capitale della società”, dice Emidio Cacciapuoti, partner dello studio legale McDermott Will & Emery, specializzato in diritto tributario, private equity e M&A.
Negli Stati Uniti lo sport viene considerato un business a tutti gli effetti, ora anche in Italia si sta arrivando a percepirlo come un investimento finanziario grazie all’indotto che gli gira intorno (diritti tv, merchandising, etc.) e la possibilità di costruire attorno alla società sportiva una serie di attività che consentano di avere delle entrate. L’interesse dei fondi “per il mondo dello sport è dunque legato anche al fatto che le società sportive permettono di avere flussi di cassa stabili nel tempo”, aggiunge Bollazzi. Un esempio di scuola. Cvc Capital Partners, che ora ha investito 320 milioni di sterline nel rugby inglese, ha fatto il colpaccio coi motori: nel 2016, dopo aver venduto il motomondiale dieci anni prima, ha ceduto la Formula 1 a Liberty Media con un rendimento del 500%.
Affidarsi a questi fondi, però, non esclude rischi. Il primo aspetto da considerare è che un obiettivo del private equity è contribuire alla crescita dell’azienda in cui investe per “monetizzare” al momento giusto il suo investimento. Ovvero, nel momento in cui l’azienda è cresciuta tanto, il fondo incassa il suo guadagno ed esce. “Hanno piani strategici di massimo 10 anni. Il tutto con tempistiche precise: nei primi 4 anni si investe, nei successivi 2 si raccoglie i ricavi e infine si vende o, nel peggiore dei casi, si interrompe il flusso di liquidità e si lascia la società in balia degli eventi”, spiega Cacciapuoti: insomma, l’ingresso di un fondo con quote di controllo può essere un trampolino di lancio per (ri)emergere, ma anche un “fuoco di paglia che in pochi anni non riesce a ricavarne i capitali desiderati e lascia il club coi conti in rosso e un posizionamento svilente nel mercato”.
Che risultati porta questa logica ai club? L’esempio del Milan è finora positivo: la gestione Elliott ha ribaltato i suoi bilanci chiudendo il 2021 con una perdita di 96,4 milioni di euro (98,2 milioni in meno rispetto a quello precedente) con costi in calo dell’8%, ricavi in crescita del 36% e risultati sportivi non disprezzabili.
L’avvento dei fondi per molti potrebbe essere la via alternativa all’agognata sostenibilità economica su cui i grandi club piangono molto dall’inizio della crisi pandemica. È in questo contesto che è nata l’idea della Superlega, che ai fondi piace assai: “Loro hanno un approccio matematico e non sentimentale: l’acquisizione dell’Atalanta va letta come un investimento che mira non al benessere di squadra e tifosi, ma alla crescita del club e magari, visti i piazzamenti recenti, al suo inserimento nell’eventuale Superlega”, dice Cacciapuoti.
Anche qui c’è l’altro lato della medaglia, ci spiegano gli esperti: anche in caso di risultati positivi si innesca un gioco al rialzo, perché dopo aver abbattuto i costi e rinvigorito i ricavi, i private equity mirano a vendere a prezzi gonfiati, alimentando così la bolla finanziaria sportiva, anziché curarla.