il Giornale, 27 febbraio 2022
Intervista a Frank Westerman
Sulla copertina, bellissima, del nuovo saggio/reportage di Frank Westerman, giornalista e scrittore olandese (è nato nel 1964 a Emmen, è stato inviato a Belgrado e a Mosca, è arrivato in finale al premio Kapuscinski) c’è una litografia del suo connazionale M.C. Escher, intitolata The Encounter, in cui «piccoli uomini» bianchi e neri girano in tondo e, infine, sono costretti a incontrarsi: «un bianco ottimista e un nero pessimista si stringono la mano l’un l’altro» ha spiegato lo stesso Escher, e bisogna ricordare che l’opera è stata realizzata nel maggio del 1944... Dice Westerman, con alle spalle un canale di Amsterdam, che questa litografia per lui «ha molto a che fare col titolo» del suo libro, Noi, umani (Iperborea, pagg. 352, euro 18,50; traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo) e con «il dualismo, il sentirsi prigionieri, quel nostro sembrare strani acrobati perseguitati dal nostro passato animale, il bianco e nero, il bene e il male». Tutte queste idee, che emergono dalla litografia di Escher, sono anche parte di Noi, umani, una specie di «indagine sul campo» su noi stessi che parte da un caso scientifico: il ritrovamento del misterioso Homo Floresiensis, o Flo, finito sulla copertina di Nature e così chiamato dall’isola di Flores, in Indonesia, dove è stato scoperto nel 2003. E così, dalle domande sulle nostre origini, scoperchiate dalla paleontologia, Westerman passa alle domande su «noi, umani», in un viaggio in cui molto viene messo in discussione.
Perché parte da Flo?
«Ogni scoperta su quello che siamo e da dove veniamo mi rende curioso. E questa in particolare, perché è inquietante: Flo non rientra nell’albero genealogico di noi umani. Non c’è modo di dipingerlo su una di quelle magliette con la linea evolutiva dalla scimmia all’individuo eretto... Lo hanno chiamato anche lo hobbit. Ma di che genere di creatura si tratta e come ci relazioniamo a lei, visto che il primo teschio era di una donna?».
E come queste domande sono diventate un libro?
«Qualche anno fa mi hanno invitato all’università di Leida per un corso di letteratura sul reportage, così ho chiesto agli studenti di iniziare a lavorare a questo libro insieme. Ho detto loro: accompagnatemi in questa detective story su chi siamo e da dove veniamo... Siamo anche andati a toccare le differenze fra i teschi, le ossa e i fossili nella sezione di là dalla ferrovia, dove si trovano gli studi e i laboratori di Scienze naturali».
In questa indagine c’è un cadavere?
«Sì. Il suo scheletro è alto solo un metro, ha la testa molto piccola, come un pompelmo, ma è intelligente: in pratica, non combacia con nessuna delle teorie che abbiamo elaborato su di noi. Perciò è intrigante, perciò bisognava andare sul campo, a vedere come stanno le cose».
Dalla Mosa all’Indonesia, che cosa è successo?
«Ci siamo imbattuti in una sorpresa dopo l’altra. E questo perché le ossa e i teschi, come i fatti, non parlano da sé: a dare loro significato sono coloro che li scoprono. Questo, per esempio, è l’anello mancante, l’uomo di Giava...»
È una copia della calotta cranica?
«La tengo qui in casa. È come uno specchio: molti hanno guardato in esso e hanno visto cose diverse in momenti diversi. Questa calotta, scoperta da Eugène Dubois nel 1891 e presentata a Parigi nel 1900, è il simbolo della nascita della paleontologia. A Leida, dove si trova, la chiamano la ronda di notte dell’antropologia. Ho qui anche una copia dell’opera di Dubois, che intitolò Man Ape, cambiando poi il titolo in Ape Man...»
E che cosa ci dice questa calotta cranica?
«Lungo la strada ho capito che, più che dalle cose ritrovate, dipende tutto dai loro scopritori e dalla storia che costruiscono intorno a esse. Sono le persone che scoprono a creare le storie. Per esempio, oggi questa calotta non è più l’anello mancante, come credeva Dubois, bensì il primo teschio di Homo erectus».
Incredibilmente, la paleontologia è influenzata dai nazionalismi.
«Essa supera i confini, eppure la sua storia è piena di sciovinismi, gelosie, orgogli... Perciò studiare i suoi protagonisti è come esaminare dei personaggi tragici, gli eroi e gli antieroi del settore».
Che cosa si può dire di personaggi come Dubois, i Leakey con la loro dinastia, o Theodor Verhoeven, prete e archeologo?
«Innanzitutto, le persone che hanno scoperto cose veramente interessanti, come Dubois, o Verhoeven, che andò a un passo dal trovare Flo, hanno sofferto tremendamente e poi sono crollate: sono diventate famose ma, come nelle tragedie di Shakespeare, sono cadute vittima di quei teschi e di quelle ossa».
In che modo?
«Dubois è sepolto sotto una scultura che rappresenta la calotta cranica da lui scoperta a Giava. Schiacciato, in ogni senso. È morto solo e arrabbiato, a 94 anni, abbandonato e disprezzato da tutti tranne che da una figlia. Ha scavato ossa per tutta la vita e, alla fine, è finito sepolto sotto di esse».
Che altro?
«Per un secolo, l’attività di scavo è stata solo maschile; solo da pochi anni partecipano anche le donne e questo ha portato a sviluppare teorie nuove, per esempio sulla nascita del linguaggio. E torniamo al punto: chi fa la storia, e come?».
Ci sono anche rivalità fra scienziati.
«Una teoria sostiene che, come specie, siamo nati in Africa e poi, una volta usciti da lì, ci siamo diffusi sul resto del pianeta. Ma gli scienziati della Georgia, per esempio, direbbero che non è affatto certo che siamo usciti tutti dall’Africa, anzi, forse siamo nati in Asia e poi, camminando, siamo arrivati in Africa... Siamo costruiti dalle storie, non dalle molecole: siamo fatti di lettere e frasi, che ci costituiscono dalla nascita alla morte. Siamo storie».
Ci sono anche piccinerie.
«Beh, gli scienziati indonesiani hanno nascosto le ossa di Flo e le hanno rese inaccessibili per anni, fino a che ne hanno spedito un campione a uno studioso del Max Planck Institute per poterne esaminare il Dna».
Qualcuno ha ipotizzato, per Flo, una «regressione» del nostro cervello: è possibile?
«Abbiamo sollevato la questione. Due scienziati di spicco di Leida lo hanno negato perché – dicono – l’evoluzione tende a creare strutture sempre più complesse. Ma una studentessa ha fatto notare che non è sempre così: esistono casi di specie che perdono organi e sensi... Non è solo una questione biologica, ma anche filosofica».
Noi, umani siamo davvero uguali in tutto e per tutto agli animali, come sostengono quelli che chiama i «biologi radicali»?
«Questo è il punto dell’indagine. Tutti concordiamo sul fatto che gli umani siano animali. Siamo mammiferi. Ma questo non significa che sia vero anche il contrario, che i mammiferi siano umani. Noi siamo animali che raccontano storie: ai figli diamo una casa, del cibo e le favole della buonanotte. E non possiamo farne a meno».