Il Messaggero, 27 febbraio 2022
Che cosa è stato lo scandalo Lockheed
Il 1 marzo 1979 la Corte Costituzionale emise, dopo 23 giorni di camera di consiglio, la sentenza che chiudeva lo scandalo Lockheed. Dei due ex ministri incriminati per corruzione, il democristiano Luigi Gui e il socialdemocratico Mario Tanassi, il primo fu assolto, e il secondo condannato assieme ai residui imputati. Dopo quella decisione, che molti ritennero frutto di compromessi politici, la competenza a conoscere dei reati ministeriali fu trasferita ai tribunali ordinari. In ogni caso la vittima maggiore fu il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, che pure era estraneo al processo, e che fu costretto a dimettersi dal pernicioso connubio di lotte partitiche e di giornali malevoli. Ma andiamo per ordine.
LA VICENDALa Lockheed era un’impresa aeronautica che aveva venduto a mezzo mondo aerei di grande efficienza. L’Italia aveva comprato alcuni Hercules, e quando si seppe che l’azienda aveva pagato cospicue tangenti ai vari governi acquirenti, i sospetti si riversarono sui nostri politici al potere. L’inchiesta americana appurò che, tramite un certo Antilope Cobbler (ciabattino di antilope), questi denari erano finiti ad alcuni militari, ministri e faccendieri. Tra questi ultimi vi erano i fratelli Lefèbvre, di cui Leone era amico, e questo bastò a renderlo vulnerabile. Ma furono sospettati anche altri ministri: Moro, Andreotti, Rumor, Gui e Tanassi.
Moro si difese sostenendo di non saper nemmeno cosa fosse la Lockheed. Un’affermazione che, se veritiera, avrebbe dimostrato il deplorevole provincialismo del suo autore, visto che la fabbrica era notissima per le sue straordinarie produzioni spaziali e militari. Il suo U2, l’aereo spia abbattuto sui cieli di Sverdlovsk nel maggio del 1960, aveva scatenato le ire di Kruschev e determinato l’annullamento dell’incontro con il presidente Eisenhower; e il suo F104 equipaggiava da anni la nostra Aeronautica Militare. Bastava leggere i giornali perché quel nome ti restasse impresso per sempre. Rumor – il maggior sospettato – fu salvato dalla Commissione inquirente. Quanto ad Andreotti, svicolò dalla polemica con soavità vescovile e sorniona indifferenza ciociara. Alla fine furono rinviati a giudizio Tanassi, Gui e altri personaggi minori. Sul Presidente della Repubblica non era emerso nulla di nulla: nondimeno, la bufera mediatica si scatenò su di lui.
IL PERSONAGGIOGiovanni Leone era uno dei più illustri giuristi italiani. Nato a Napoli nel 1908, a ventisette anni era già docente universitario. Democristiano convinto, era stato membro della Costituente e parlamentare in tutte le legislature. Godeva di alto prestigio per la sua autorevolezza accademica, appena temperata da una bonarietà che talvolta indulgeva al pittoresco. Non apparteneva alle correnti del partito, e quindi non godeva di protezione, oltre a quella delle sue riconosciute capacità: quando la Dc non sapeva levarsi dai pasticci in cui la ingolfavano i suoi vertici, chiamava Leone a costituire un governo balneare. Questa indipendenza, alla fine, gli costò la carica, perché la Dc lo abbandonò per meschini interessi di baratteria elettorale. Fu una pagina buia per la Dc, ma anche per il giornalismo italiano, che si tuffò in questo fango di contumelie e di allusioni con la più turpe e maramaldesca morbosità. L’Espresso e la giornalista Camilla Cederna si segnalarono per la loro petulanza aggressiva, ma non furono i soli.
LE ALLUSIONIAltri quotidiani e rotocalchi sbeffeggiarono l’anziano presidente, la sua elegante consorte e persino i suoi figli. Un giornalista arrivò al pettegolezzo che gli occhi di donna Vittoria ricordassero quelli dell’Antilope; un altro fece un’univoca allusione alle scarpe scamosciate della first lady; altri scesero a illazioni più ridicole. Il Partito comunista, che all’occorrenza sapeva abbandonare il suo plumbeo grigiore moscovita per assumere toni di eccitata grossolanità, sfruttò con la solita sapiente spregiudicatezza questa lotta intestina. Leone non era mai piaciuto alla sinistra, un po’ per la sua indipendenza di giudizio, un po’ per la sua storia universitaria (era stato, come del resto Fanfani e tutti i docenti iscritto al partito fascista) e soprattutto perché la sua elezione era stata determinata anche dai voti del Movimento sociale. Per di più la sua rimozione avrebbe liberato un posto riservato, nella redistribuzione delle cariche, a un esponente della sinistra. L’elezione di Pertini, indiscussa la caratura morale del personaggio, fu infatti salutata dal Pci come una Glorious Revolution di Redenzione Resistenziale. Così, il 15 giugno del 1978 Giovanni Leone annunciò le sue dimissioni. Non gli fu nemmeno risparmiata l’umiliazione di impedirgli la lettura integrale del messaggio di commiato: mai l’untuosità farisaica aveva raggiunto livelli di così vergognosa ingratitudine. Il vecchio professore ritornò ai suoi studi e, dopo una congrua decantazione, rientrò, sommessamente, alla vita politica, e contribuì, inascoltato, alle proposte di riforma del processo penale.
LA COMBINAZIONEIl giudizio complessivo della vicenda è quello di una sconfortante combinazione di una stampa spregiudicata e malevola, e di una politica ancor più cinica e truffaldina. Questa stessa combinazione avrebbe portato, quindici anni dopo, alla dissoluzione dello scudocrociato e all’umiliazione pubblica del suo segretario Forlani, corroso dalle bavette labiali davanti all’aggressività dell’incalzante Di Pietro e alla implacabile fissità delle telecamere. Un significativo contrappasso per una classe dirigente che aveva rinnegato i suoi elementi migliori.
Con l’andar del tempo, le accuse e le illazioni a carico di Giovanni Leone si dimostrarono quello che tutti sapevano fin dall’inizio: un mélange di chiacchiere di bottega e di calunnie programmate. Tuttavia nessuno fece ammenda. Soltanto i radicali, che erano stati i più severi critici del Presidente, e probabilmente gli unici in buona fede, trovarono il coraggio di scusarsi: Marco Pannella ed Emma Bonino ammisero pubblicamente di avere esagerato. Ma gli altri, compresi i maestri di vita e di pensiero, rimasero in verecondo silenzio.
IL CONTRATTACCOLa estromissione dei politici attraverso la sapiente divulgazione di documenti riservati e conversazioni intime è continuata, e ha raggiunto il suo culmine negli anni recenti mietendo vittime illustri come la ministra Federica Guidi e la scienziata Ilaria Capua. L’ultimo tentativo riguarda Matteo Renzi, di cui sono state squadernate, malgrado la sua guarentigia parlamentare, vicende e carte personali. Ma il bellicoso fiorentino è passato al contrattacco, ha denunciato i magistrati inquirenti e ha chiesto al Senato di elevare conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta. Il Senato, a grande maggioranza, gli ha dato ragione. Potrebbe esser il primo segno di un recupero di coraggio da parte della politica davanti alle frange, minoritarie ma funeste, di una magistratura arrogante e di una stampa pettegola.