Il Messaggero, 27 febbraio 2022
Biografia di Vitali Klitschko
Il coraggio che aveva sul ring lo ha portato nella politica. Ma è stato un passaggio fisiologico perché Vitali Klitschko, sindaco di Kiev, il cromosoma della paura non c’è l’ha mai avuto. Merito del corredo genetico ereditato da papà Wladimir Rodionovich Klitschko, colonnello dell’Armata Rossa deceduto nel 2011 a causa di un tumore. Aveva 64 anni e probabilmente avrebbe potuto avere una vita molto più lunga se nell’aprile del 1986 non fosse stato tra i valorosi che lavorarono per evitare che il disastro di Chernobyl potesse avere contorni ancor più devastanti di quelli consegnati alla storia. L’esposizione prolungata alle radiazioni, alla lunga, risultò fatale. Ma per Klitschko senior difendere la sua Ucraina, salvare quante più vite possibile, era la priorità. Quando Wladimir si ammala, Vitali è ancora campione del mondo di pugilato, uno dei pesi massimi più forti che la storia del ring ricordi. Ma già strizza l’occhio alla politica: prova, senza fortuna, a diventare sindaco di Kiev. Poi diventa leader del neonato movimento Udar, partito di ispirazione liberale con il cui stemma entra in Parlamento. Nel 2014, dopo aver appeso i guantoni al chiodo da campione del mondo Wbc lascia la boxe con 45 vittorie in 47 incontri e mai nessuno che lo abbia mandato ko vuole concorrere per le presidenziali, ma gli manca un requisito, l’aver vissuto in Ucraina nei dieci anni precedenti. E lui, che da pugile ha vissuto a lungo anche in Germania, è costretto a farsi da parte. Ma la sua credibilità politica è già sufficientemente solida da garantirgli la poltrona di primo cittadino della capitale. Comincia lì, la storia che lega Klitschko a Kiev da otto anni a questa parte. Un legame che nemmeno la guerra ha spezzato. Con la città sotto assedio l’ex pugile è sempre lì, al suo posto. Anzi, è al posto delle gente. «La scorsa notte è stata difficile ma non ci sono militari russi nella città. Il nemico sta cercando di avanzare ma è stato respinto», ha annunciato ieri su Telegram, parlando ai suoi cittadini. E come sempre sta facendo dall’inizio dei bombardamenti ha parlato alla sua gente dei morti e dei feriti, dei sacrifici da fare in questi giorni, compreso quello di rispettare il coprifuoco perché «chi sarà in strada dopo le 17 sarà considerato nemico». «Sarà pesante, ma dobbiamo perseverare», il monito del sindaco che ha sempre manifestato grande vicinanza all’esercito ucraino. Al punto da essersi arruolato immediatamente tra i riservisti: «Non abbiamo altra scelta che prendere le armi e combattere».
STESSO SANGUE Al suo fianco, come sempre, il fratello Wladimir. Che a sua volta è stato tra i pesi massimi più rilevanti della storia (oro olimpico ad Atlanta 1996 e poi campione del mondo Wbo, Ibf, Ibo e Wba con 64 incontri vinti su 69) e che in queste ora sta seguendo il fratello come un’ombra. Nemmeno a dirsi: anche lui si è arruolato e ha imbracciato le armi. «Ci difenderemo fino all’ultima goccia di sangue. Non sappiamo come vivremo domani, ma la motivazione è fortissima», ha detto parlando alla Bild.
È il filo doppio che lega i due fratelli, due fuoriclasse del ring che si sono spartiti il regno per 15 anni buoni. E che hanno sempre rinunciato alla pioggia di dollari che sarebbe piovuta sulle loro teste accettando di sfidarsi per la riunificazione delle cinture. Mamma Nadezhda non li voleva pugili, ma, quando fu costretta ad accettare la cosa di fronte ai loro risultati, strappò almeno la promessa che non si sarebbero mai sfidati. E loro così fecero. Mai avversari, sempre insieme. Anche da ambasciatori dell’Unesco in tutti i progetti per sostenere l’infanzia in difficoltà. Loro che sanno bene di cosa si parli: Vitali è nato in Kirghizistan nel 1971, Wladimir in Kazakistan cinque anni dopo. Non avevano fissa dimora, la casa era nell’area delle operazioni in cui il padre prestava opera. Poi l’Ucraina, in quel 1986 benedetto e maledetto insieme. E finalmente l’idea di una patria, e una sola. Paradosso di questa storia: due fieri combattenti per l’Ucraina che in Ucraina non sono nemmeno nati. Ma che a quell’abbraccio del 1986 devono tanto. Secondo loro, anche la vita.