La Lettura, 27 febbraio 2022
Su "Caro Pier Paolo" di Dacia Maraini (Pozza)
«Non c’è nulla di più poetico del dialogo con i morti», assicurava Giovanni Pascoli. Gli fece eco Giorgio Manganelli con un suo indimenticabile Discorso sopra la difficoltà di comunicare con i morti. In questo suo bellissimo Caro Pier Paolo Dacia Maraini lacera il velo che separa chi è vissuto e chi sopravvive nella maniera più diretta, che è quella della lettera, per essere più precisi delle lettere, forse perché nemmeno ai morti si può dire tutto in una sola volta, è necessario rinnovare le occasioni e riprendere fiato.
Ma a chi scriviamo, quando scriviamo a qualcuno che non c’è più? Forse gli adulti indirizzano lettere ai loro morti come i bambini a Babbo Natale: c’è un piano razionale che impedisce agli uni e agli altri di crederci fino in fondo; ma poi c’è quello della scrittura, non dico la scrittura letteraria, ma la scrittura in quanto tale, che di per sé è un atto magico, e dunque un’efficace manipolazione dell’assenza. E su questo livello, il vero e l’impossibile si equivalgono.
C’è da notare una singolare coincidenza: anche l’epistolario di Pasolini, nella nuova edizione recentemente pubblicata da Nico Naldini e Antonella Giordano, è arricchita da una lunga, struggente lettera del maggio 1945, indirizzata a suo fratello Guido, scritta dopo aver saputo della sua morte, in uno scontro tra fazioni partigiane. «Caro Guido», così esordisce Pier Paolo, «ora che so che tu sei morto mi pare di conoscerti veramente; e so cosa vuol dire il nome di fratello». Trovando questo inedito nell’epistolario, mi sono chiesto fino a che punto fosse legittimo inserirlo tra le altre lettere «normali». In fondo è un testo letterario, una lettera-diario con tanto di epigrafe da Tommaso Campanella.
Leggendo il libro di Dacia Maraini, mi sono convinto che la scelta è giusta, come sarebbe giusto pubblicare una lettera a un destinatario ancora vivo, ma che per qualche accidente non è arrivata a destinazione. Parafrasando Pasolini, si può dire che anche Dacia Maraini, scrivendogli queste lettere, ha capito fino in fondo «cosa vuol dire il nome di amica». La nuova edizione delle lettere di Pasolini, d’altra parte, anche se recentissima fa in tempo ad apparire anche in Caro Pier Paolo: arrivata tra le mani dell’autrice appena prima che licenziasse le bozze, e le ispira ulteriori lettere, a conferma del fatto che non è mai facile distinguere una lettera «vera» e una «falsa». Vero, nel senso di umanamente autentico, è semmai il tono, il modo che Dacia Maraini ha trovato per rivolgersi al suo interlocutore perduto. A differenza dell’amore l’amicizia, quando è davvero gratuita e reciproca, è il più puro dei sentimenti umani, il più radicato nel tempo e nello spazio, e insieme il più libero dalle asfissianti catene del bisogno. In termini psicologici, si direbbe che la quantità di proiezioni con le quali imbrattiamo la fisionomia dell’altro, se certo non può ridursi a zero, perché non c’è nulla di perfetto nella vita umana, ci permette di vedere con una ragionevole approssimazione chi è chi ci sta di fronte. Solo gli amici comprendono, realizzandolo, quel fondamento dell’etica cristiana che consiste nel non giudicare se non si vuole essere giudicati. E se esistono molte più storie d’amore che storie d’amicizia, ciò si deve sicuramente alla maggiore prepotenza del primo, ma anche al fatto che le storie d’amicizia sono difficili da raccontare, perché felicemente prive di un capo e di una coda, ovvero di finalità.
Deriva da queste premesse, credo, il risultato più notevole del libro di Dacia Maraini: la riduzione dei due protagonisti a due esseri umani senza orpelli, Dacia e Pier Paolo, che si fidano l’uno dell’altro, si proteggono, procedono sul terreno accidentato dei giorni che passano. «Tienimi, tienimi», sussurra Pier Paolo a Dacia con la bocca piena di sangue, durante un attacco di ulcera, mentre aspettano l’ambulanza chiamata dal solerte Moravia. Il verbo, in sé, significa poco, ma contiene tutto. L’amica sa tenerlo, perché la sua presa è sicura. Ovviamente non può soccorrerlo (e infatti teme che stia per morire) ma è lì, in quel momento, come in tanti altri momenti, e forse pure questo ha a che fare con il destino.
C’è un dettaglio molto rivelatore, in una delle prime lettere. Tra tanti ricordi che ha, e che la obbligano a continue scelte, perché parlare di tutto equivarrebbe a parlare di niente, Dacia non ricorda la prima volta che vide Pier Paolo: chi li presentò? e dove, in quale dei tanti ritrovi della Roma degli anni Sessanta? C’è da scommettere che, se qualcuno le chiedesse dove e quando ha conosciuto Moravia, o un altro degli uomini che ha amato, Dacia Maraini saprebbe rispondere con precisione. È una cosa frequente: le origini di tante amicizie sono come le sorgenti del Nilo dei vecchi esploratori, sicuramente ci sono, ma quello che conta è il corso, la durata. Questo senso della continuità del legame, dell’abitudine, è la materia impalpabile che la scrittrice riesce, con la sua consumata sapienza dei dettagli, a catturare nel suo libro, che in certe pagine mi ha fatto pensare a un grande classico sull’amicizia della letteratura italiana del Novecento, Il mio sodalizio con De Pisis di Giovanni Comisso. Quello che ne viene fuori è il ritratto di un uomo sensibile, fragile, così gentile che certi gesti rimangono impressi nel cuore dell’amica che ne è stata testimone come emblemi eterni di umanità.
Ma non si pensi che questo libro, abbandonandosi al fluire della memoria, rinunci alla comprensione dell’opera. Questa comprensione esige un passaggio obbligato, che è la distinzione netta tra Pasolini e il pasolinismo, che è una serie di luoghi comuni e di citazioni che si ripetono sempre più avulse dal loro contesto: la scomparsa delle lucciole, lo straccio di speranza, la scavatrice, «non ho le prove» eccetera.
Personalmente, se ne avessi il potere, abolirei i centenari, non tanto perché sono il pretesto di una quantità impressionante di libri inutili e di eventi insulsi, ma perché producono citazioni. E le virgolette, paradossalmente, mentre garantiscono in modo notarile e incontestabile l’autenticità del pensiero, finiscono per tradirlo irrimediabilmente, sottraendolo al suo retroterra culturale ed esistenziale, riducendolo a uno slogan o a una formula pubblicitaria. Quando è il calendario a produrre la memoria, e non l’intelligenza, c’è sempre qualcosa di sospetto, e incombe il rischio di creare un Pasolini portatile, buono per chiunque lo voglia brandire contro nemici immaginari, che segue a ruota lo stucchevole Dante pandemico dell’anno scorso.
Ed ecco che Caro Pier Paolo, tra tanti meriti narrativi e testimoniali, arriva opportunamente a fornire un antidoto, perché ogni volta che viene citato un testo, anche famoso, non viene mai perduto il senso della totalità, quella dinamica connessione tra un’esperienza esistenziale unica e la sua espressione artistica che è la cifra stessa, il significato profondo dell’opera di Pasolini. Potrei segnalare molti esempi di questo metodo di lettura, ma voglio solo ricordare una tra le lettere più sincere e penetranti del libro, che ruota intorno a un testo poetico celeberrimo (e dunque soggetto a un tasso altissimo di citazioni a sproposito) di Pasolini, Supplica a mia madre. «Amara e bellissima poesia», scrive Dacia a Pier Paolo, e sul giudizio estetico («bellissima») possiamo più meno tutti, a seconda dei gusti, convenire o dissentire. Ma quel che più conta è la percezione dell’amarezza, come se la bellezza della poesia, che può bastare a qualunque professore di letteratura, non riuscisse a velare totalmente allo sguardo dell’amicizia il fatto che quell’amore così esclusivo, quell’edipicità totalizzante, è una lesione del destino, la vera origine di una catastrofe. Non a caso, come se fosse possibile con la scrittura di una lettera rinnovare una situazione reale, interviene nel dialogo anche un altro fantasma, quello di Bernardo Bertolucci, che ricorda a Pier Paolo che «anche i passerotti minuscoli e delicati si allontanano dal nido e cercano di volare con le proprie ali». Ma lui si limita a sorridere, come chi risponda: non sapete cos’è il vero amore. Tra i tanti doni dell’amicizia, c’è anche il fatto che nessuno si convince di nulla, nessuno si converte, nessuno cambia la rotta della sua vita per un consiglio. Agli amici basta «tenersi»: qualsiasi cosa significhi esattamente.