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 2022  febbraio 18 Venerdì calendario

Su "L’affaire. Tutti gli uomini del caso Dreyfus" di Piero Trellini (Bompiani)

Nella più antica tra le foto dell’Affaire, lui è il quarto soldatino da sinistra, una silhouette pietrificata sull’attenti. Mentre l’ectoplasma che ha di fronte non è un ectoplasma, bensì il sottufficiale della Garde républicaine che gli sta spezzando in due la sciabola. Lo imponeva il protocollo, a suprema umiliazione. Ma l’apparecchio fotografico di fine Ottocento non era in grado di fissare quel gesto. Perciò nell’immagine il militare che rompe il ferro appare sfocato, informe come in un dipinto di Francis Bacon.

Avvenuta la mattina del 5 gennaio 1895, sotto un gelido cielo parigino color inox, la scena della degradazione nel cortile dell’École Militaire non è il primo atto del caso Dreyfus, però ne rappresenta il climax drammatico. Tanto che Roman Polanski decise di aprirci il suo film, bello ma troppo infedele ai fatti, L’ufficiale e la spia.

’L’ufficiale e la spia’, il caso Dreyfus secondo Roman Polanski - trailer

Vittima di un errore giudiziario poi fermentato a complotto, il capitano di origini ebraico-alsaziane Alfred Dreyfus era stato processato a porte chiuse e ingiustamente condannato dal Consiglio di guerra per alto tradimento, spionaggio a favore dell’eterno nemico tedesco. Al pari di un’esecuzione capitale, la cerimonia della degradazione doveva funzionare da pubblico ed esemplare ammonimento. Dettagliatissime furono dunque le istruzioni elaborate per lo show: "I soldati vennero divisi in anziani e giovani. Ciascun reggimento organizzato in quattro sezioni di dodici file sotto il comando di un capitano e due tenenti. Alla parata potevano avere accesso i giornalisti, muniti di un lasciapassare accordato dallo Stato maggiore, che sarebbero stati disposti tra i due raggruppamenti di soldati, di fronte al cortile". Inizialmente si era scelto "il 4 gennaio ma le autorità militari spostarono la degradazione al 5, il sabato ebraico" ricorda lo scrittore Piero Trellini in L’affaire. Tutti gli uomini del caso Dreyfus (Bompiani). Un libro monstre: 1376 pagine fitte di personaggi, episodi, grafici, piantine, elenchi, addirittura formule matematiche.

L’autore ha affrontato il duello con la più raccontata, tentacolare e celebre fra le causes célèbres pedinandola nei suoi meandri peggio illuminati, rivoli meno battuti, micro e sotto-storie, figure satellitari - ancorché spesso famose - da Georges Méliès a Oscar Wilde, e nei suoi riflessi più imprevedibili, dalle Ninfee di Monet al Tour de France. Ne è venuto fuori un tomo non rubricabile in alcun genere. Né un romanzo né un saggio storico né una ricostruzione giornalistica. Ma allora che cos’è? Alla domanda, Trellini sospira come se nemmeno lui sapesse identificare la creatura: "È un ibrido" dice. "Ma è il mio modo di raccontare le storie. Ci entro pescando da più fonti possibili. Più vado a fondo e più le storie si espandono. In questo caso ho frugato per anni in atti processuali, giornali, diari, memorie, epistolari. Da punti di vista inconsueti, i fatti sono riportati in forma narrativa, senza però inventare nulla. Ho provato a recuperare informazioni che si sono perse, ed è un peccato perché invece ci permettono di mettere a fuoco situazioni, incontri, tipi umani, dinamiche, psicologie. Ci aiutano a capire meglio". Roba mica da poco in una vicenda quale l’Affaire, ormai ampiamente chiarita nei suoi snodi essenziali, ma dai contorni ancora sfrangiati, quindi passibili di un’investigazione, di una narrazione potenzialmente infinite.

Laboratorio della modernità

Populismo, sciovinismo, antisemitismo, sensazionalismo giornalistico, neo-protagonismo degli intellettuali... Con il suo groppo di "ismi", il caso Dreyfus resta una scena primordiale e un vertiginoso laboratorio della Modernità. Piero Trellini ha restituito quella vertigine in un libro centrifugo dove, a matrioska, ogni storia ne schiude un’altra e tutte finiscono per intersecarsi in un formidabile, pirotecnico spaccato d’epoca. Di una temperie segnata da irreversibili rivoluzioni ideologiche, mediatiche, tecnologiche, scientifiche, artistiche. Mutazioni che in qualche modo ancora ci riguardano. Certo, si potrebbe discutere sul fatto che - come ritiene l’autore - gli anni dell’Affaire anticipassero il presente delle fake news (attraverso la stampa scandalistica), dei social (tramite salotti e caffè) o perfino del web (l’estendersi dei collegamenti ferroviari come prima "rete"). Vista la mole, si potrebbe anche rimproverare al tomo di ingarbugliare ulteriormente una vicenda già abbastanza aggrovigliata di suo, nonché di spomparne, causa eccesso di digressioni, il pathos naturale, un ritmo scandito da incessanti colpi di scena, rovesciamenti di fronte, suicidi, morti misteriose...

Con occhialino da orafo, da orologiaio, Trellini riferisce, ad esempio, le esatte condizioni atmosferiche in questo o quel giorno cruciale per l’Affaire (il meteo è uno dei suoi cavilli di battaglia); elenca quali e quanti libri prese in prestito il capitano durante la detenzione sull’Isola del Diavolo; srotola il menù completo d’un famoso banchetto tra dreyfusardi che si tenne il 14 luglio 1899 a Rennes...

Potrebbe sembrare arido sfoggio di erudizione, ossessione del dettaglio, culto feticistico di liste e tabelle, se però l’insieme non riuscisse percorso da una singolare vena di follia conoscitiva che lo mette al riparo da ogni pedanteria. "Un conto è limitarsi a dire che, confinato su un’isola, Dreyfus soffre. E un altro è sapere che cosa fa, mangia o legge. Un conto è scrivere che quel certo telegramma segreto fu decifrato dai Servizi francesi, e un altro è cercare di capire, ricorrendo ai manuali di decrittazione dell’epoca, come fu effettivamente decifrato" spiega l’autore. "All’inizio del libro segnalo in una nota che il lettore potrebbe anche saltare alcuni capitoli. Ma dietro elenchi, schemi, immagini, apparati extratestuali non c’è che l’intenzione di dare concretezza visiva a cose che altrimenti rimarrebbero vaghe". Cose tipo il famigerato bordereau, ossia il papello in cui si promettevano ai tedeschi importanti rivelazioni militari e che venne attribuito a Dreyfus per incastrarlo, ma era stato scritto da un altro: il comandante Ferdinand Esterházy, inenarrabile figura di ufficiale balordo, puttaniere e viveur.

Galeotto fu il pizzino

Raccolto dalla spazzatura nell’ambasciata del Reich, il pizzino - di cui oggi ci resta solo una foto - fu, come noto, la vera miccia dell’Affaire. "Si legge spesso che, quando lo recuperano, il bordereau è stracciato "in mille pezzi". In realtà quei pezzi erano soltanto sei" dice Trellini. Beh, obietto, "mille pezzi" è un modo di dire: se il foglietto fosse stato triturato in coriandoli non staremmo ancora qui a parlarne, no? "Sempre meglio vederlo ricostruito in un’immagine" assicura l’autore, che infatti lo ha ricomposto mostrandone tutte le "linee di strappo".

Ma non c’è pericolo che, inseguita in tali e tante minuzie, l’epopea dell’Affaire perda quel respiro romanzesco che in fondo ne costituisce il sale? "Infatti, prima di tutto ho cercato di raccontarla come una stagione pazzesca, esaltante di amicizie, mobilitazione, slanci collettivi. Molti dei personaggi coinvolti l’avrebbero sempre ricordata come l’epoca più bella della loro vita, la loro Resistenza, il loro ’68...".

Ma, tra gli effetti collaterali di cotanta epica non c’è stato quello di metterne in ombra il perno, il protagonista, l’uomo Dreyfus? Una vulgata, ripresa dallo stesso Polanski, ci dipinge le capitaine come tipo scialbo, antipatico, malmostoso, alla fine persino ingrato verso i suoi salvatori, da Émile Zola al, certo molto ambivalente, colonnello Georges Picquart. Eppure, nei dodici anni della vicenda, Dreyfus dà prova di un’impagabile capacità di resistenza, lucidità, volontà di vita e riscatto. Tutte cose che sono state spesso confuse con l’orgoglio del militare integerrimo, del patriota, dell’ebreo assimilato ormai fedele alla Francia perinde ac cadaver. Mentre erano forse rivendicazione di dignità, integrità personale, una voglia feroce di tornarsene a casa da moglie e figli, al civico 6 della lussuosa Avenue du Trocadéro. Ché, a differenza del sulfureo Esterházy,  il capitano godeva di solida rendita. E mai avrebbe tradito per denaro.

Vittima sacrificale

Al contrario di quanto si ripete, l’Affaire non "spaccò in due la Francia" come nella famosa vignetta di Caran d’Ache. Tra una maggioranza di colpevolisti e una minoranza di innocentisti che poi avrebbero preso il sopravvento, in molti rimasero indifferenti. È vero invece che fin dall’inizio gli accusatori si augurano una cosa sola: che Dreyfus muoia. Che si faccia saltare le cervella con la pistola subito messa a sua gentile disposizione, oppure crepi di stenti nella prigionia. Se il capitano avesse tirato le cuoia probabilmente non ci sarebbe stato nessun Affaire... O no? chiedo a Trellini. "Dreyfus" dice, "era persona molto quadrata. Nell’esercito aveva trovato la propria dimensione ideale di ordine e linearità. Quando però tutto salta lo vediamo difendersi e argomentare con grande intelligenza. Qualcuno si è domandato: se fosse successo a un altro, Dreyfus sarebbe stato "dreyfusardo", si sarebbe schierato al suo fianco? Impossibile dirlo. Ma sappiamo che, malgrado la sua riservatezza, una volta conclusa la vicenda, scese in campo a sostegno di Sacco e Vanzetti".

Morì nel 1935. Con grande scorno dei suoi sostenitori, che la giudicavano una resa, aveva accettato la grazia. Ma poi fu riabilitato, reintegrato nell’esercito, e ad ogni costo volle combattere nella Grande guerra. Morì discretamente, come gli sarebbe piaciuto vivere: tra gli affetti di una famiglia che non lo aveva mai mollato. Nondimeno, a oltre un secolo di distanza, il putiferio dell’Affaire ha ancora qualcosa di assurdo, illogico, controproducente per quella stessa casta militare che montò la maionese mentendo, tramando, falsificando tutto il falsificabile.

"È così" dice Trellini. "Ma per spiegare molti controsensi di questa storia un’ipotesi ci sarebbe. Abbiamo ancora un po’ di tempo per dirne qualcosa?". Non tanto, però proviamoci. "Torniamo al famoso bordereau. Nella nota si promettevano rivelazioni sul cannone da 120 millimetri. Ma quando scoppia lo scandalo quell’arma è già obsoleta, troppo inaffidabile. I francesi stanno lavorando da tempo al cannone 75, che, grazie al freno idraulico, è molto più stabile al momento del tiro, e si rivelerà decisivo per la vittoria nella Prima guerra mondiale". Ergo? "È possibile che lo Stato maggiore abbia fabbricato l’Affaire come cortina di fumo per nascondere quell’innovazione militare. Anche a costo di sacrificare un innocente". Dalla balistica alla ballistica. Ma che volete, dopotutto "la giustizia militare sta alla giustizia come la musica militare alla musica" diceva quel gran genio di Georges Clemenceau.