La Stampa, 27 febbraio 2022
La filosofa Katherine Angel parla di sesso
Katherine Angel è una filosofa e accademica inglese nata e cresciuta in Belgio. L’anno scorso è uscito in Italia il suo Bella di papà (Blackie edizioni), un saggio sulla figura del padre nella cultura contemporanea, e adesso arriva Il sesso che verrà (sempre Blackie Edizioni, sempre tradotto da Veronica Raimo e Alice Spano). Parte da una promessa che Michel Foucault, nel 1976, fece alla gente del futuro: il sesso che verrà sarà migliore. È stato così? Non esattamente. Qui Angel indaga il desiderio femminile, la sessualità e la retorica del consenso nel post #metoo. Verso alcuni aspetti del movimento è anche piuttosto critica: scrive per esempio che, al suo culmine, «Era difficile non accorgersi di una smania collettiva di sentire questi racconti, annidata dietro un linguaggio accorato e indignato, in perfetto accordo con l’idea che dire la verità fosse un valore fondativo e assiomatico del femminismo. Il #metoo non soltanto ha legittimato la parola delle donne, ma ha anche rischiato di trasformarla in un obbligo, la manifestazione doverosa del proprio potere femminista di autorealizzazione». Angel mette in discussione molte cose, tra cui un altro obbligo, quello di conoscere noi stesse e i nostri desideri come unica via per salvarci dalla violenza, e nel farlo aiuta a riflettere su come aprirsi, finalmente, alla gioia e all’avventura che il sesso può diventare.
Scrive che per tanta retorica del consenso le donne sono al riparo dai rischi solo se sanno quello che vogliono. Ma, aggiunge, non dovrebbero essere costrette a conoscersi a fondo per proteggersi dalla violenza.
«Il consenso non è una cosa che può essere data una volta per tutte; il desiderio cambia e abbiamo diritto di cambiare idea. Ma spesso alle donne viene dato un compito impossibile: sapere in ogni momento che cosa vogliono, esprimerlo con chiarezza. Il rischio di violenza viene presentato come inevitabile e l’onere di gestire quel rischio ricade sulle donne. Se questo comprende anche il dovere di conoscere i propri desideri a menadito, allora le conseguenze per chi non lo fa sono le stesse di sempre: il biasimo per la violenza subita. Io mi rifiuto di accettare questo modello: abbiamo il diritto di non doverci scontrare con la possibilità della violenza, punto e basta».
Il suo ideale di società è un mondo in cui tutti hanno il diritto di affermare la propria vulnerabilità, di viverla con gioia. Che cosa si può fare, a livello individuale e collettivo, per aprirsi a questo?
«La vulnerabilità, intesa come apertura e curiosità, spesso è un lusso, ed è possibile solo in un contesto che ci fa sentire al sicuro. Serve una società in cui questo "lusso" sia alla portata di tutti, e in cui sempre meno persone dipendano (in maniera precaria) dagli uomini: così il sesso può smettere di essere uno strumento di scambio dove c’è uno squilibrio di potere tra le parti. Modificando poi le nostre concezioni relative ai sessi, gli uomini non si sentirebbero più in dovere di difendersi dalla vulnerabilità. E potremmo tutti avvicinarci al piacere in modo nuovo, consapevoli della grande avventura che può essere».
Scrive che per liberarci dalla violenza bisogna anche cominciare seriamente a smantellare il concetto di binarismo di genere.
«Nonostante i progressi in questo senso, siamo ancora fortemente condizionati da idee vecchie, secondo cui le persone si dividono in due gruppi in maniera netta: uomini e donne. È un concetto superato, che ha fatto molti danni, specie nei confronti delle donne, verso le quali ha creato delle pretese contraddittorie: siate sicure di voi, ma non troppo! Esprimete i vostri desideri, però attente: a un certo punto verranno usati contro di voi! Questa divisione crea un vincolo intollerabile anche per gli uomini eterosessuali, che devono sottostare a un ideale altrettanto assurdo: di conquista, di forza, di desiderio costante. È quando gli uomini falliscono che si fa strada la possibilità della violenza. Se il cambiamento, il fallimento e la vulnerabilità non venissero più percepiti come tabù o esperienze umilianti, allora non solo diminuirebbe la violenza maschile, ma per gli uomini aumenterebbe anche la possibilità della gioia».
Se il consenso non ci salva dal sesso insoddisfacente, perché c’è tanta ignoranza in merito al piacere femminile, e la clitoride è spesso ancora vista come un alieno?
«Alle ragazze non si insegna che hanno il diritto di pretendere il piacere sessuale: dobbiamo ritenerci fortunate se riusciamo a sgraffignarne un po’. Viene considerato un di più, un bonus aggiuntivo in quella complessa partita che sono le relazioni eterosessuali. Alle ragazze, invece, dobbiamo dire che il piacere è un diritto. La cappa di vergogna che circonda l’idea stessa del piacere delle donne - e non solo nel sesso, ma in tutto: nel cibo, nel rapporto col corpo - deve essere demolita. E non bastano i corsi di educazione sessuale a scuola: bisogna cambiare il modo in cui parliamo ai bambini del corpo, della felicità, dello spazio che possono rivendicare per sé».
Come descriverebbe il "buon sesso" (definizione di Michel Foucault e riferimento del titolo inglese del libro: Tomorrow sex will be good again) a livello anche emotivo e politico, oltre che fisico?
«La felicità e il piacere dipendono dall’ampiezza di possibilità che abbiamo a disposizione: avere davanti a noi molte strade, poter scegliere, fare esperienze. Senza sentirlo come un obbligo e senza temere un’umiliazione se le cose dovessero andar male. E vale per le donne, per le quali il rischio di violenza è ancora reale, ma anche per gli uomini, per i quali l’umiliazione è ancora una potente forza regolatrice.