La Stampa, 27 febbraio 2022
Carlo Cottarelli: «Il caro-prezzi ci costa 66 miliardi»
«Stiamo pagando una tassa al resto del mondo: se i prezzi restassero al livello raggiunto all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, per il 2022 varrebbe fino a 66 miliardi di euro, il 3,5% del Pil», dice Carlo Cottarelli. Il presidente dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani ha calcolato l’impatto degli aumenti delle materie prime sull’economia del Paese, e il quadro è devastante: 57 miliardi in uno scenario con «prezzi medi», fino a 9 in più se il conflitto dovesse andare avanti. «È uno choc che lo Stato, con i suoi interventi, sta attenuando solo in parte», spiega l’economista, ex direttore del dipartimento Affari Fiscali del Fondo monetario internazionale (Fmi) e già commissario alla revisione della Spesa.
Cottarelli, si poteva fare di più?
«In Italia le misure introdotte per contrastare i rincari sono state molto forti, pari allo 0,8% del Pil, così come in Francia, mentre la Germania si trova su livelli più bassi. In posizione intermedia ci sono Regno Unito, Spagna e Paesi Bassi. Ma è chiaro che questa situazione avrà un effetto restrittivo».
Il conflitto ucraino è appena cominciato, quanto peserà sul costo delle importazioni italiane l’aumento dei prezzi internazionali?
«La nostra elaborazione è basata sui prezzi raggiunti il giorno dell’attacco e sui costi aggiuntivi rispetto al 2019. A meno che non ci siano sanzioni che impediscano le importazioni di gas dalla Russia non dovrebbero salire ancora. Se invece si decidesse di proibirle, allora entreremmo in un mondo nuovo».
Il governo ha già iniziato a lavorare per cercare di sostituire il gas di Mosca, che vale il 40% delle nostre forniture. Su cosa dovrebbe puntare?
«Non c’è molto che si possa fare nell’immediato, tranne portare al massimo l’estrazione dai nostri pozzi e riaccendere le centrali a carbone: non è piacevole ma nell’emergenza può essere accettabile. E poi si può cercare di rafforzare i flussi dei gasdotti che arrivano dal Sud. Ma stiamo parlando di 28 miliardi di metri cubi, non sono certo facili da trovare».
Alla vigilia dell’inverno, quando già era chiaro che ci sarebbero stati problemi sul prezzo e sull’approvvigionamento, Mario Draghi aveva proposto ai Paesi europei un sistema di riserve energetiche comuni, o quanto meno un piano per lo stoccaggio. Non è successo nulla…
«Io sono sempre a favore di iniziative comuni europee, non aver seguito l’indicazione di Draghi è stato un errore».
L’Occidente sembra invece compattarsi su una esclusione selettiva della Russia dal sistema di pagamenti Swift, una mossa che avrebbe un impatto senza precedenti. Il ministro del Tesoro Daniele Franco però ha spiegato che l’Italia, e ovviamente non solo lei, non potrebbe più pagare il gas russo. Come dovrebbe muoversi il governo?
«Se le sanzioni vogliono essere usate seriamente mi sembra difficile non bloccare il gas, siamo la principale fonte di valuta estera per la Russia, non è che possiamo pensare di danneggiarla fermando gli acquisti di bambole matrioska. È inutile girarci intorno, siamo di fronte a una scelta politica importante, senza intervenire sul gas qualsiasi altra operazione diventa un po’ più debole».
Altro tema sensibile. Le banche italiane hanno esposizioni con la Russia per 25 miliardi di euro. Per Unicredit, che è presente nel Paese dal 2005, il business vale 13 miliardi, Intesa San Paolo ha oltre 5 miliardi di prestiti. L’intervento sullo Swift non sarebbe un boomerang per il nostro sistema del credito?
«In realtà le attività sarebbero soltanto congelate. Ma attenzione, Swift non è l’unico sistema, c’è quello cinese. È come dire a Mosca: ti impedisco di usare il cellulare ma resta attiva la linea fissa. Purtroppo per anni abbiamo dimenticato l’importanza dei fattori geopolitici, ci siamo comportati come se il mondo fosse diventato piatto continuando a commerciare con Paesi non esattamente liberal-democratici, basti pensare alla Cina».
Perché?
«Perché ci faceva comodo, ogni volta che c’era una iniziativa per cambiare questa situazione ci siamo voltati dall’altra parte».
Torniamo all’energia. Nel nostro Paese c’è chi rimpiange di aver abbandonato il nucleare...
«Ci sono stati due referendum. Al primo, nel 1987, ricordo di aver votato a favore, l’ultima volta non mi sono espresso, ero negli Stati Uniti. Credo che rinunciare sia stato uno sbaglio, soprattutto fermare la ricerca che negli altri Paesi è andata avanti. Ma vale lo stesso per il gasdotto Tap, che è stato contestato a lungo, per le energie rinnovabili frenate dalla burocrazia, per tutti i paletti che sono stati messi al fotovoltaico. Decidiamoci, se vogliamo andare tutti a piedi siamo liberissimi di farlo».
Con l’inflazione che galoppa e una crescita del Pil destinata a rallentare, il Piano nazionale di ripresa e resilienza è già superato? Crede andrà cambiato?
«Penso che sia un discorso prematuro: nel Pnrr le riforme sono più importanti degli investimenti, e vanno realizzate. In teoria i fondi del Recovery erano pensati come indicizzati all’inflazione, ma è stato preso come riferimento un aumento del 2 per cento l’anno. Credo adesso si possa tornare a quello spirito, aumentando gli stanziamenti, visto che nel frattempo l’inflazione nell’eurozona è salita al 5 per cento».
Professore, quanto durerà la corsa dei prezzi?
«Non penso l’inflazione se ne andrà via presto, poi non mi sembra ci sia la volontà di alzare i tassi di interesse, anzi, l’impressione è che le banche centrali in questa fase siano molto prudenti. È possibile che una volta raggiunto un cessate il fuoco ci sarà una riduzione degli aumenti, ma sarà difficile tornare al livello di inizio febbraio».