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 2022  febbraio 27 Domenica calendario

Mio padre John le Carré

Mi trovo nella posizione del gatto che non solo può guardare negli occhi un re, ma è anche tenuto a dire qualcosa di rilevante su di lui e sul suo lavoro. Quando ero un ragazzo ci sarei riuscito senza problemi. Ero innamorato della storia di Smiley contro Karla, e in particolare della voce di Michael Jayston che leggeva La talpa . Ho ascoltato la sua lettura mille volte grazie al mio massiccio mangianastri Jvc, finché non sono stato in grado di recitarla a memoria, con la stessa cadenza: «Ho una storia da raccontarvi. È una storia di spie. E se è vera, come credo che sia, voi ragazzi avrete bisogno di un’organizzazione completamente nuova». Vi avrei detto – e potrei ancora dirvelo – che David John Moore Cornwell, meglio noto come John le Carré, era non solo un padre meraviglioso, ma anche un narratore unico e affascinante.
Quello del 2020/21 è stato un inverno doloroso. All’inizio di dicembre ero nella casa dei miei genitori in Cornovaglia ad assistere mia madre, malata di un cancro che stavolta si stava decisamente prendendo sul serio, mentre mio padre era in ospedale con una sospetta polmonite. Qualche sera dopo ero accovacciato accanto al letto di mia madre nello stesso ospedale, e le stavo dicendo che mio padre non ce l’aveva fatta. Abbiamo pianto, e poi sono tornato a casa da solo a guardare la pioggia sul mare.
Io ero – sono – un uomo assurdamente fortunato. Quando mio padre è morto, fra noi non c’era nessun conto in sospeso; nessuna parola sbagliata o lite irrisolta; nessun dubbio e nessun sospetto. Lo amavo. Lui mi amava. Ci conoscevamo, eravamo fieri uno dell’altro. Lasciavamo spazio ai nostri difetti e ci divertivamo. Non si può chiede re nulla di più.
Solo che avevo fatto una promessa. Non avevo agito con leggerezza, ma era successo durante una metaforica estate di non so più che anno. Stavamo passeggiando a Hampstead Heath. Anche lui conviveva con il cancro, ma sembrava uno di quei cancri con cui si muore e non di cui si muore. Mi chiese di prendermi un impegno e io lo presi: se fosse morto con una storia incompiuta sulla scrivania, l’avrei terminata al suo posto?
Dissi di sì. Non potevo immaginare di dirgli di no. Da uno scrittore a un altro, da padre a figlio: quando non potrò più continuare, raccoglierai tu il testimone? La risposta è sì, naturalmente.
E così, guardando un vasto oceano nero in una tetra notte della Cornovaglia, mi sono ricordato de L’ultimo segreto . Non lo avevo letto, ma sapevo che esisteva. Non incompiuto, ma sospeso. Rimaneggiato e poi ancora rimaneggiato. Cominciato subito dopo Una verità delicata , che ero incline a considerare il perfetto distillato del suo lavoro, una virtuosistica manifestazione di talento, competenza, passione e abilità narrativa. L’ultimo segreto , tuttavia, era stato scritto ma non autorizzato alla pubblicazione. Un romanzo e una promessa, entrambi incompiuti.
Ma allora era brutto? Può capitare a qualunque scrittore. E in tal caso, era migliorabile? E se lo era, potevo migliorarlo io? Anch’io, come mio padre, ho buone capacità mimiche, ma se il libro avesse richiesto di impiegarle su ampia scala, di contraffare la sua voce per trecento pagine, sarei riuscito ad affrontare quel compito? Sarebbe stato giusto farlo?
Quando l’ho letto, la mia perplessità è aumentata. Era spaventosamente bello. C’erano i soliti svarioni da prima stesura: ripetizioni, errori tecnici, qualche raro paragrafo confuso. Ma era più curato del solito per essere un documento non ancora arrivato alla fase delle bozze e, come Una verità delicata , era una specie di riflessione perfetta sulle sue opere precedenti – un canto dell’esperienza – e al contempo una narrazione del tutto compiuta, dotata di potere emotivo e di interessi tutti suoi.
Da cosa era stato trattenuto mio padre? Cosa lo aveva spinto a conservarlo nel cassetto della scrivania, per poi tirarlo fuori e riscriverlo e poi rimetterlo via di nuovo, in-soddisfatto, fino al momento attuale? Cosa, di preciso, avrei dovuto correggere? Dovevo dipingere le sopracciglia a quella Monna Lisa?
Nelle rare occasioni in cui avevo immaginato il momento attuale e la parte che vi avrei svolto, avevo ipotizzato un libro finito per tre quarti, con dettagliate annotazioni per un finale, forse alcune in forma di materiale non ancora incorporato, cosicché il mio compito sarebbe stato una specie di saldatura sincretica delle varie parti del testo. Invece non ho dovuto fare niente del genere. Un processo editoriale che assomigliava di più a uno scambio clandestino ha prodotto la versione che tenete fra le mani. Si tratta, sotto ogni ragionevole aspetto, di un puro Le Carré, anche se potete tranquillamente incolpare me di qualunque nota stonata.
E così torniamo al perché. Perché lo leggete solo ora? Io ho una teoria. È infondata, istintiva e impossibile da dimostrare.
I severi arbitri di verificabilità che controllano le informazioni divulgate dal Circus di mio padre mi appenderebbero per le orecchie per averla proposta. Eppure anch’io, come Ricky Tarr, sento che è vera.
C’era una cosa su cui mio padre aveva tracciato un limite invalicabile. Non avrebbe mai discusso dei segreti invecchiati, ingialliti e leggermente ammuffiti del suo lavoro nei servizi di intelligence. Non fece mai nessun nome, né rivelò mai, neppure alle persone più care e fidate, i fatti accaduti durante il suo periodo come agente segreto. Io non so niente, di quegli anni della sua vita, che non sappiano anche i lettori di tutto il mondo. Malgrado il suo distacco dal Sis negli anni Sessanta, mio padre rimase fedele alle sue promesse e alle proprie. Se c’era una cosa che lo offendeva profondamente era l’insinuazione, buttata lì di tanto in tanto dagli alti funzionari della moderna comunità, irritata dai suoi attacchi contro la politicizzazione del lavoro d’intelligence, che avesse tradito i suoi ex colleghi con azioni o omissioni. Non li aveva mai traditi, e loro, silenziosi ma costanti nel corso di molti anni, erano apparsi inaspettatamente al suo fianco in librerie e stradine di campagna, incontri casuali che duravano giusto quanto bastava per fargli capire che lo sapevano.
Ma L’ultimo segreto fa una cosa che nessun altro romanzo di Le Carré ha mai fatto. Mostra un Servizio frammentato: diviso tra fazioni politiche, non sempre buono nei confronti di chi dovrebbe rispettare, non sempre vigile o efficiente, e in definitiva non più sicuro di poter giustificare la propria esistenza.
In questo romanzo le spie britanniche, come molti di noi, hanno perso la certezza di ciò che significa il loro paese, e di chi siamo per noi stessi. Come succedeva con Karla in Tutti gli uomini di Smiley, così succede qui con quelli della nostra parte: è l’umanità del servizio che non è all’altezza del compito, e che comincia a chiedere se il compito valga il prezzo da pagare. Io credo che mio padre non se la sentisse di dirlo ad alta voce. Credo che, consapevolmente o no, gli si stringesse la gola al pensiero di rivelare quelle verità alla – sulla – istituzione che gli aveva dato una casa a metà del Ventesimo secolo, quando era un cane smarrito senza collare. Credo che abbia scritto un libro bellissimo, ma che, quando lo guardava, lo trovasse troppo vicino alla verità, e più ci lavorava, più lo limava, e più questo gli diventava chiaro. E allora eccoci qua.
Potete formarvi la vostra opinione, e sarà valida quanto la mia, ma questo è ciò che credo. Mio padre è in queste pagine, e si sforza come ha sempre fatto di dire la verità, raccontare storie e mostrarvi il mondo. Benvenuti a Silverview.
Nick Cornwell, giugno 2021 © Nick Harkaway, 2021 © 2022 Mondadori Libri S.p.A