Corriere della Sera, 27 febbraio 2022
Il metaverso e la moda. Il caso D&G
Per invito un reggicalze, per stage uno scenario alla videogame e per protagonista un avatar che sogna di essere una donna reale. Il risultato? Un’eroina super femminile vestita di abiti dalle proporzioni sconosciute: spalle esagerate, fianchi rotondi, silhouette bozzolo. E non è solo per i reggicalze, i bustier, il lattice o gli spacchi ma per la forza dell’immagine che irrompe sulla passerella. Perché quando Dolce e Gabbana decidono di uscire dalla loro comfort zone, non lo fanno certo in punta di piedi. Territori sconosciuti. Linguaggi nuovi. D’altronde c’è un «metaverso» intero da esplorare: «Non facciamo parte di quelle generazioni ma non possiamo certo stare a guardare. Siamo curiosi. E vogliamo dialogare per capire e trasmettere a nostra volta qualcosa di noi». Ecco la sfida: «Abbiamo chiesto ai nostri sarti di lanciarsi in tagli estremi, di osare, per capire sino a dove potevano spingerci». La partenza è un processo al contrario: dall’avatar all’umano. Il sogno verso la realtà. Praticamente la libertà di poter essere.
Ecco allora le nuove proporzioni con il focus sulle spalle, non a caso, una delle forze (reali) delle donne e non soltanto fisicamente. Per abiti e giacche e camicie e bluse. Ma senza mai perdere di vista il punto B, quel «qualcosa di noi». Tessuti e costruzioni sperimentali (dal neoprene alla lycra, al nylon al tulle intarsiato di fake fur) per arrivare a capi leggeri, stretch, confortevoli. Poi il punto C, la femminilità: risolta con i feticci cui sopra usati come un gioco, che siano i reggicalze o aperture impazzite ovunque. Il nero infine, perfetto, perché eroina del metaverso certo, ma pur sempre in very Dolce e Gabbana.
Black is back, sembrerebbe. Anche da Trussardi la scelta di Benjamin A. Huseby e Serhat Isik, gli stilisti, per l’esordio del nuovo corso è precisa. Il nero come segno a sottolineare i contorni di una visione che si prefigge di «risvegliare» un brand: «Trascurato per tanto tempo come una bella addormentata». La metafora concede al duo molte licenze: una musica che scuote le pareti, un parterre di tipi strani e una moda parecchio impattante perché quasi un’armatura (contro chi e contro cosa?) fatta di lunghi cappotti avvitati, bomber e blouson, maglioni over, cargo attillati e piumini anatomici. Il touch è decisamente berlinese underground per quanto gli stilisti sostengano di essersi ispirato a come la gente si veste a Milano. Ma quale Milano?
Il potere del colore anche d’inverno da Ermanno Scervino, anche se lo stilista fiorentino ammette che lui non ha pensato proprio a nessuna stagione e che per una volta ha fatto solo quello che si sentiva pensando a cosa sarebbe piaciuto indossare alle donne per sentirsi a proprio agio. «Leggerezza l’unico pensiero. Così ho scelto materiali che potessero garantirmela». Tessuti per vestire e non infagottare. Piumino e cappotto peso super light e pelle alleggerita. Maglioni di cashmere e abiti lingerie. Silhouette molto pulite e svelte. Da Jil Sander il duo Lucy e Luke Mayer porta tutti in una sala foderata di velluto e drappi bianchi con al centro decine di statue: una galleria, un museo, una citazione? L’unicità, ecco cosa: di un’opera d’arte e di un abito. E senza celebrazioni ogni pezzo di questa collezione è proprio un piccolo capolavoro di sartorialità. I colori chiari che si intonano con i gessi della sala accentuano la sensazione. Le cappe, i cappotti, gli abiti, le giacche e persino i lunghi di maglia sembrano sculture. Da Philosophy di Lorenzo Serafini il teatro come metafora di un «un’esperienza umana in cui passato e futuro si fondono in un presente fatto su misura per ciascun individuo. Sorpresa, eccitazione, forza e fragilità...», scrive lo stilista che poi riassume in parole e abiti: cabaret punk, vale dire sensualità con un pizzico di nostalgia e di ribellione.