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 2022  febbraio 27 Domenica calendario

Gemma Calabresi Milite si racconta

Signora Gemma, quando vide per la prima volta suo marito Luigi Calabresi? 
«Era il Capodanno del 1968, non avevo ancora ventidue anni. I miei erano a Courmayeur, io ero da sola a Milano e non avevo niente da fare. La mia amica Maura insistette perché la accompagnassi a una festa. Lo vidi subito, all’ingresso, e dissi alla mia amica Maura: “Guarda quello, mica male…”». 
Com’era? 
«Elegante: doppiopetto scuro, con un righino leggero bianco. Ci ha sempre tenuto molto. Alto, prestante: un bell’uomo. Per tutta la sera ballò solo con me. Poi andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Lui mi tolse il bicchiere, lo posò, e mi diede un bacio». 
E lei? 
«Io avevo avuto qualche piccolo flirt, ma non mi era mai successo nulla del genere. Amore a prima vista. Mi chiese il numero di telefono. Risposi veloce: “4042334, e non te lo ripeto”. Il giorno dopo Gigi mi chiamò. L’aveva tenuto a mente». 
Sulla copertina del suo libro «La crepa e la luce» c’è la foto del vostro matrimonio. 
«Ci sposammo il 31 maggio 1969, la prima data in cui il nostro parroco, don Sandro, aveva la chiesa libera. Al ritorno dal viaggio di nozze in Spagna aspettavo già Mario. Abbiamo fatto tutto in fretta, e ora so perché». 
Perché? 
«Perché avevamo poco tempo. E tutto nella vita ha un tempo, e un senso. Siamo parte di un disegno. Volevamo molti figli, ed era giusto così, perché ognuno di loro ha un compito, ognuno ha da fare cose importanti per se stesso, per Dio, per gli altri. I miei figli sono il dono più bello». 
Mario si chiama come il nonno materno, suo padre. 
«Misi la condizione di non chiamare il secondo Paride, come il papà di Gigi. Infatti il secondo si chiama Paolo, come il suo migliore amico. Ma quando annunciai ai miei che aspettavo il terzo figlio, mio padre reagì male. Chiese: era proprio il caso?, e si mise a piangere. Mi sembrò fragile. Invece aveva capito tutto». 
Piazza Fontana. La morte di Pinelli. Suo marito gli aveva mai parlato di lui? 
«Sì. Si conoscevano bene, si regalavano libri a Natale. Commentavano i fatti, discutevano. Gigi si fermava sempre a parlare con i ragazzi fermati dopo i cortei, anche se il suo capo, Allegra, lo rimproverava. Voleva capire perché gettavano le molotov, perché si armavano. Dopo la sua morte ho ricevuto molte lettere di genitori e anche di giovani che volevano ringraziarlo per questo. Di recente al Miart di Milano ho incontrato uno scultore, un mio coetaneo, che mi ha detto: “Suo marito mi ha salvato, altrimenti avrei preso il mitra”. Era un ragazzo arrivato a Milano dal Sud, figlio di poliziotti, tentato dalla lotta armata…». 
Cosa le disse suo marito della morte di Pinelli? 
«Quello che gli raccontarono i suoi colleghi: che era caduto. Lui non era nella stanza. Dalla morte di Pinelli era distrutto. Quella notte non chiudemmo occhio. Quella, e tante altre notti». 
Cominciò la campagna contro di lui. 
«Trovavo le scritte sui muri vicino a casa, nella discesa verso la metro: “Calabresi assassino”, “Calabresi sarai giustiziato”, “Calabresi farai la fine di Pinelli”. Gigi una volta mi chiese: se dovessi restare sola, ti risposeresti? Risposi di no, e fu contento. Era un gelosone… Cercava di proteggermi». 
Come? 
«Faceva sparire le lettere minatorie, i giornali in cui si parlava di lui. Mi diede delle regole: mai dare il nome Calabresi, neanche dal parrucchiere. Le poche volte che andavamo al ristorante, sempre un tavolo appartato. Le poche volte che andavamo al cinema, entrare a film iniziato e uscire qualche minuto prima. Fare attenzione se qualcuno mi seguiva, o mi aspettava per strada. Lui però non ha fatto attenzione, non si è accorto di Bompressi e Marino che lo aspettavano…». 
Non aveva paura? 
«Sì, ne aveva. Una sera in casa sentimmo un botto di là, lui chiese al suo amico Paolo: mi accompagni a vedere? Temeva stessero sparando dalle finestre. Invece si era rotta la lavatrice». 
Però non portava la pistola. 
«La teneva smontata, in un cassetto, tra i maglioni. Diceva che tanto l’avrebbero colpito alle spalle. Un giorno ebbi un presentimento. Davanti alla farmacia di corso Vercelli mi dissi: sarai vedova. Scoppiai a piangere. Poi mi scossi: sei scema? Quando Gigi tornò a casa, tardi come sempre, pensai: lo vedi? È arrivato, tutto bene. Era un venerdì. Lo uccisero il mercoledì dopo». 
Lei teneva un diario. 
«Un po’ per polemica verso mio marito: “Gigi rientra tardi”, “Gigi passa a salutare poi torna in questura…”. Mai avrei immaginato che sarebbe servito al processo, per confermare il racconto di Marino. Avrebbero dovuto ucciderlo il giorno prima, ma rinunciarono perché non avevano visto la macchina sotto casa. In effetti la sera del 15 maggio io annoto nel diario: “Gigi torna presto!!!”. Aveva trovato posto in cortile, la 500 blu non era parcheggiata per strada come al solito. Guadagnò un giorno di vita». 
Come ricorda il 17 maggio 1972? 
«Era uscito, poi era tornato indietro per cambiarsi la cravatta. Ci ha sempre tenuto molto. Quella mattina aveva pantaloni grigi, giacca scura con i bottoni di madreperla, e una cravatta di seta rosa. La cambiò con una bianca e mi chiese: come sto? Stai bene Gigi ma stavi bene anche prima, gli risposi». 
E lui? 
«Sì, ma questo è il segno della mia purezza. È l’ultima frase che mi ha detto. La frase che mi ha lasciato». 
Chi la avvisò della sua morte? 
«Era il primo giorno di lavoro per la nuova signora delle pulizie. Arrivò in ritardo, trafelata: “Mi scusi, hanno sparato a un commissario…”. Mio marito è un commissario, risposi. Lei fu prontissima: “Cos’ha capito, hanno sparato a un commissario in piazzale Baracca, hanno fermato il tram e sono dovuta venire a piedi…”. Quella donna aveva compreso, era stata velocissima a inventarsi una frottola, cui io fui felice di credere. Non l’ho mai rivista. Ho ripensato molte volte a lei. Ha attraversato la mia vita nel giorno più drammatico, si è presa cura dei bambini, e non l’ho neppure pagata…». 
Da chi seppe? 
«Telefonai in questura; non rispondevano. Insistetti; attaccarono il telefono. Chiamai dal telefono della vicina, risposero: non è ancora arrivato. Poi suonò alla porta un sarto nostro amico, il signor Federico. Per anni mio figlio Mario ha avuto paura del signor Federico, anche se lui gli portava bellissimi regali…». 
Cosa le disse il signor Federico? 
«Niente. Mi guardava pallido, impietrito. Io lanciai un urlo: “Noooooo!”. Poi feci un gesto come per indicare i soprammobili, i libri, le cose comprate nel viaggio di nozze, come a dire: tutto questo non avrà più senso. Il signor Federico tentò di abbracciarmi, ma io non volevo essere abbracciata, così cominciai a girare, e Mario aggrappato alla mia gonna girava con me, e con suo fratello che era ancora nella mia pancia. L’ho chiamato Luigi, come il padre». 
Non morì subito. 
«Il signor Federico disse che lo stavano operando, il vicequestore che era ferito alla spalla, un collega diede un’altra versione. Arrivò don Sandro, il prete che ci aveva sposati, e mi accompagnò dai miei. Fu don Sandro a dirmi: è morto. Lo disse senza emettere suoni, solo con i muscoli della bocca. Me lo ricordo sempre quel volto che dice: è morto». 
E lei? 
«Mi accasciai sul divano. Mi sentivo distrutta, svuotata, abbandonata. Un dolore lacerante, anche fisico. Non so quanto tempo sono stata lì, con le mani nelle mani di don Sandro. So che a un certo momento Dio è arrivato». 
Dio? 
«Dio era lì con me, su quel divano. Ne sono assolutamente certa. Ho sentito una pace profonda. Tutto, le persone che parlavano piangevano gridavano, tutto era ovattato, distante». 
Lei aveva già fede? 
«Avevo avuto un’educazione religiosa come quasi tutti gli italiani, andavo in chiesa la domenica con Gigi, ma non ero particolarmente religiosa. Il dono della fede arrivò allora. Proposi a don Sandro: “Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino”. Ma non era roba mia. Io ero una ragazza di venticinque anni cui avevano appena ammazzato il marito. Era Dio che mi indicava la strada, che rendeva testimonianza attraverso di me. Lì ho capito che ce l’avremmo fatta, io e i bambini. Certo, sapevo che la vita non sarebbe più stata la stessa. Ma sentivo che non ero sola. Dio era già stato allertato, forse dai miei vicini di casa…”. 
In che modo? 
«Il nostro appartamento dava sull’interno; per questo non ho sentito gli spari, né ho visto il corpo. Ma i miei vicini hanno sentito, hanno visto. E per primi hanno pregato per lui. Così Dio è venuto da me». 
E lei andò all’obitorio. 
«Accarezzai il viso di Gigi, e ritrassi la mano: era già freddo. Gli accarezzai i capelli, ma erano rigidi, forse impregnati di sangue; ma io volevo ricordarmi i suoi capelli morbidi, lunghi, almeno per un poliziotto… E poi sì, l’avevano colpito alle spalle». 
Cosa accadde fuori dall’obitorio? 
«C’erano dei ragazzi che inveivano contro mio marito, che gridavano insulti e slogan. Mio fratello Dino ebbe un gesto gentile: mi tappò forte le orecchie, così non sentii nulla, solo il battito accelerato del cuore. Ora, io vorrei dire a quei ragazzi, cinquant’anni dopo, che hanno fatto una cosa terribile. Puoi anche essere contento in cuor tuo che abbiano ucciso il commissario Calabresi; ma non puoi urlarlo in faccia alla vedova, che poi era una ragazza poco più grande di loro. La morte esige silenzio». 
Dei funerali cosa ricorda? 
«La bandiera sulla bara. Volevano toglierla prima di seppellirlo, dicevano che andava restituita. Qualcuno dalla folla gridò: “Deve riposare con il tricolore!”. Così glielo lasciarono. È un pensiero che mi conforta». 
Lei ebbe segni di ostilità, ma anche di solidarietà. 
«Ogni giorno arrivava un pacco con un regalo per i bambini. Un bavaglino per Mario, una tutina per Paolo, una copertina per Luigi che doveva ancora nascere. Ma siccome all’obitorio indossavo un cappottino rosso, la prima cosa che avevo trovato per coprirmi in un maggio ancora freddo, dalla Sicilia mi scrissero: “Svergognata!”. Una coppia di amici di Gigi mi mandò una lettera di due pagine. Nella prima c’erano frasi di circostanza, che finivano con un “d’altronde”. Nella seconda pagina era scritto: “Chi la fa l’aspetti”. Mi sono sempre chiesta perché. Perché volessero ferirmi come se fossi la moglie di un assassino». 
Nel necrologio lei scrisse le parole di Gesù in croce: «Perdona loro, perché non sanno quello che fanno». 
«Il cardinale di Milano Colombo disse che quelle parole erano un fiore che sarebbe fiorito nel tempo. E così è stato. Ma ci ho messo tutta la vita a perdonare. All’inizio volevo, al contrario, vendicarmi». 
Vendicarsi come? 
«L’unico momento di pace nella giornata erano i dieci minuti tra quando prendevo il Tavor e quando mi addormentavo, nel lettone accanto a mia madre, che papà mi aveva ceduto: ero tornata a vivere dai miei. In quei dieci minuti immaginavo di mettermi una parrucca rossa e infiltrarmi nei circoli dell’estrema sinistra, fino a quando non avrei trovato qualcuno che si vantava di aver ammazzato Calabresi. A quel punto avrei tirato fuori dalla borsetta la pistola. E gli avrei sparato. Se ripenso a quella ragazza e alla sua rabbia provo tenerezza. La cosa più importante della mia vita è stata questo cammino della pacificazione e del perdono, durato cinquant’anni». 
Andava a trovarlo al cimitero? 
«Tutte le settimane. Io gli parlavo, mentre Mario, Paolo e Luigi giocavano con gli altri bambini». 
Quali altri bambini? 
«Il loculo di Gigi era accanto alle tombe dei bambini, dove c’erano le macchinine e gli altri giocattoli lasciati dai genitori. Nel libro scrivo che i miei figli avevano il permesso di giocarci, a patto di rimettere tutto a posto. Quando Mario ha letto le bozze, mi ha fatto notare che invece avevano il permesso di portare a casa le macchinine, purché le sostituissero con altre. Idealmente si scambiavano i giocattoli con quei bambini che non c’erano più». 
Signora Gemma, è una cosa straziante. 
«Soffrivamo tutti, però Gigi era con noi. L’ho sempre fatto sentire vivo. Pettinavo i bambini come lui, con la riga: adesso ci pettiniamo come papà, dicevo. Preparavo gli involtini che gli piacevano tanto, dicevo: papà li avrebbe mangiati tutti, e loro facevano a gara a finirli. Qualche volta ho fatto sentire la voce del padre, registrata sul magnetofono Geloso; poi ho smesso, perché li intristiva. A Mario avevo detto: papà è andato a prepararci una casa dove vivere tutti insieme. Lui ogni sera mi chiedeva: ma quando è pronta questa casa? Era un bambino un po’ triste. Ma dal papà, come i fratelli, ha preso una certa spavalderia. Raccontavo loro i suoi scherzi…». 
Quali scherzi? 
«Anche feroci. In questura c’era un collega dongiovanni, che cambiava una fidanzata dopo l’altra. Gigi fece stampare false partecipazioni in cui annunciava il suo matrimonio: i colleghi si congratulavano, gli facevano i regali, e quello non si capacitava…». 
Lei non aveva ancora trent’anni. Non aveva amici? 
«Amici e niente più. Qualche volta uscivo, ma al ritorno i miei mi dicevano che uno dei bambini si era svegliato, e mi sentivo in colpa». 
Poi, nella scuola dove insegnava religione, incontrò il suo secondo marito, Tonino Milite. 
«Quando scoprì che avevo tre figli, disse: sarà dura dividere la michetta in cinque… Non ci eravamo ancora sfiorati. Poi abbiamo avuto un altro figlio, Uber. Dal latino: ubertoso, fertile, felice». 
Tonino Milite era un pittore comunista. 
«I miei, democristiani, non ne erano contenti. Poi capirono. Paolo e Luigi cominciarono a chiamarlo papi. Mario invece per anni l’ha chiamato per nome». 
Cosa votava il commissario Calabresi? 
«All’inizio Dc, poi socialdemocratico. E io pure, perché lo seguivo». 
Nel 1988 finirono in carcere per il suo assassinio gli ex militanti di Lotta continua Marino e Bompressi, e gli ex dirigenti Sofri e Pietrostefani. 
«Dicevo che avrei dato dieci anni di vita in cambio della verità. Me ne hanno portati via undici. I processi furono il mio calvario». 
I giornali erano quasi tutti innocentisti. 
«È vero. Però nessuno ha mai scritto una riga contro di noi. Ai figli avevo detto: riabiliteremo papà con il nostro comportamento e con il nostro amore. Saremo come lui ci voleva. Dovranno riconoscere: una persona che ha avuto una moglie e dei figli così non può aver ammazzato qualcuno, non può aver gettato un altro uomo dalla finestra». 
Ha mai pensato che gli accusati potessero essere innocenti? 
«Ho anche detto: noi rispetteremo le sentenze, e non le commenteremo. Quando ci fu la prima condanna, piansi al pensiero della figlia di Bompressi, una bella ragazza dai capelli rossi, che avevo visto più volte. Ho perdonato tutti, anche se all’inizio in aula mi imponevo di fare la faccia dura, cattiva. E per tutti ho sempre pregato, a volte chiamandoli per nome, a volte pensando genericamente ai tanti che avevano inveito, che avevano firmato». 
Il manifesto contro il «commissario torturatore» fu firmato dai più importanti intellettuali italiani. 
«Alcuni, da Paolo Mieli a Eugenio Scalfari, hanno chiesto scusa. Altri, come Fulco Pratesi, mi hanno assicurato che non sapevano niente: erano iscritti a gruppi che aderivano e davano i nomi dei soci. Altri ancora, quando li ho incontrati, non mi hanno vista, o hanno fatto finta di non vedermi. Ma ora sono in pace con tutti». 
Però i condannati non le hanno chiesto perdono. 
«Questo per me non ha alcuna importanza. Il perdono non si chiede, si dà. È il frutto del cammino iniziato su quel divano, da quel necrologio. Non è stato un percorso facile. A volte bastava una frase, un articolo, per farmi tornare indietro. E comunque Marino il perdono l’ha chiesto». 
Chiese anche di incontrarla, ma lei all’inizio rispose di no. 
«C’era un processo in corso. Lo scorso anno però ci siamo visti. Lui cercò di minimizzare: “Io ho solo guidato la macchina, e per guidarla c’era la fila…”. Gli risposi che sapeva dove andava quella macchina, e che per me tutti erano responsabili allo stesso modo. Forse sono stata troppo severa. Certo, apprezzavo la sua confessione, il suo pentimento. E siccome l’avevano fatto sentire un traditore, alla fine gli ho detto: chi dice la verità non tradisce mai». 
Suo figlio Mario ha incontrato Pietrostefani. 
«Pietrostefani era il più duro, il più impenetrabile. Ma alla fine Dio è andato anche da lui». 
Se ne attende l’estradizione. 
«Saperlo in carcere non mi darebbe alcuna gioia. Me ne darebbe invece sentire parole di verità. All’inizio vedevo in loro soltanto degli assassini, ma ho capito presto che erano stati anche altro. Buoni padri, ad esempio. Persone che avevano fatto volontariato. Che avevano fatto anche del bene». 
Con Sofri ha mai parlato? 
«No». 
Sogna ancora suo marito Luigi? 
«A lungo non l’ho sognato. Poi ho cominciato a fare due sogni, sempre gli stessi. Nel primo corriamo insieme per mano, ma lui resta indietro, e muore. Nel secondo andiamo al ristorante, c’è un’esplosione, io esco ma lui resta, e c’è una seconda esplosione. Prima quei sogni mi angosciavano. Poi mi ha fatto piacere rivedere il suo volto. Noi siamo invecchiati, lui invece è sempre giovane». 
A Luigi non sarà dispiaciuto che lei si sia risposata? 
«No! Lui è lassù, è felice, ha una visione ben più ampia della nostra. Sono io che in passato sono stata arrabbiata con lui, che mi aveva lasciata sola…». 
È certa di rivederlo? 
«Tutti rivedremo le persone care. Ne sono sicura da quando Dio venne a trovarmi, seduta su quel divano». 
Qualcuno vorrebbe farlo santo. 
«Ma no! Era un poliziotto che amava il suo lavoro, e ne conosceva i rischi. Era una brava persona, ma una persona normale. Come ha detto nostro figlio Luigi: ci manca solo che lo facciano santo, e me lo portino via del tutto». 
Lei ha incontrato la vedova Pinelli, grazie a Napolitano. 
«Per decenni hanno tentato di contrapporci, di presentarci come nemiche. Invece eravamo solo due donne che si erano ritrovate vedove, lei con due figlie. Quando sono arrivata al Quirinale era già là, seduta. Ci siamo date la mano. Poi si è alzata e ci siamo abbracciate. Io ho detto: finalmente. Licia ha risposto: peccato non averlo fatto prima». 
Lei chiude il libro dicendo che senza quella tragedia oggi sarebbe una persona peggiore. Perché? 
«Perché ho avuto tanto dolore ma anche tanti incontri, tanto affetto, tanto amore, tanta solidarietà, tanta gente che ha pregato per me. Ho scoperto che la cosa più importante della vita sono gli altri. Ho fatto un percorso inverso a quello dei terroristi. Loro disumanizzavano le vittime, illudendosi di uccidere dei simboli. Io li ho umanizzati, arrivando a capire che c’erano vittime anche tra loro».