Corriere della Sera, 27 febbraio 2022
Putin è pazzo?
La notte in cui cadde il Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, il tenete colonnello Vladimir Putin, capo della stazione del Kgb a Dresda, chiamò la guarnigione sovietica di stanza a Potsdam chiedendo aiuto e sollecitando un intervento armato. Una folla inferocita aveva circondato il consolato dell’Urss e minacciava di assaltarlo. La risposta fu negativa: «Non abbiamo l’autorizzazione da Mosca: il centro tace».
Quella frase ha segnato per sempre la sua vita. La paralisi del potere e il caos della piazza sono da allora i suoi incubi. Come disse nel 2000, l’anno in cui fu eletto presidente della Russia, «in quelle circostanze funziona una cosa sola: devi colpire per primo e colpire così duro che il tuo avversario non dev’essere più in grado di reggersi in piedi». «Avremmo evitato molti problemi – aveva aggiunto – se non avessimo lasciato così frettolosamente l’Europa Orientale». Il più macroscopico, secondo Putin, fu il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando l’indipendenza delle Repubbliche, soprattutto quelle slave «fece dei russi il più grande gruppo etnico del mondo a essere diviso da confini di Stato».
Forse è utile tornare a quell’episodio lontano nel nostro viaggio nella mente dello zar, per cercare di capirne le motivazioni profonde che lo hanno portato a ordinare la più vasta operazione militare in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. E soprattutto per capire quanto residuo equilibrio e ragionevolezza albergano ancora in lui.
Se questo è il retroterra, è chiaro che Putin abbia deciso, trent’anni dopo, di agire in nome dell’unità del popolo russo. Meno lineari sono i processi che hanno convinto il leader del Cremlino a scatenare l’apocalisse e lanciare una guerra distruttiva, che probabilmente lo vedrà prevalere ma rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro, ritorcendosi sulla Russia con gravissime conseguenze politiche, economiche e strategiche. Qualunque sarà l’esito della partita ucraina, è evidente infatti che nei prossimi anni un nuovo intermarium, una linea divisoria da mare a mare, scenderà dal Baltico al Mar Nero separando di nuovo il continente tra due blocchi nemici.
Secondo lo scrittore russo Viktor Erofeev, «nella mente di Vladimir Putin si è formata chiaramente una realtà parallela, incomprensibile all’Ucraina, all’America e all’Europa». È un mondo nel quale a Kiev governa una banda di neonazisti, che si arma con il contributo americano e minaccia militarmente la Russia. «In questa visione, l’Ucraina dev’essere demilitarizzata, il suo esercito liquidato, il Paese un po’ castrato». Erofeev sostiene che questa realtà alternativa si è andata formando in Putin nell’arco di vent’anni, quelli in cui è stato presidente, e che si fonda su quattro elementi di base: «L’infanzia povera, la gioventù da ragazzo di strada, il Kgb e l’impero sovietico». Nella seconda realtà putiniana tutto è una battaglia da vincere e tutto grida vendetta per lo status perduto nella sconfitta della Guerra Fredda e nell’umiliazione subita da allora. Anche Nikolai Swanidse, già membro del Consiglio per i diritti umani e vecchio amico di Putin, prima di cadere in disgrazia per la sua difesa di Memorial, data a due decenni fa l’inizio della deriva: «Come possono avere una influenza positiva vent’anni di potere incontrollato e zarista?». Secondo Swanidse, «il linguaggio serve a Putin per nascondere i suoi pensieri, interessante non è quello che dice, ma quello che fa».
Ma è stata l’esperienza della pandemia, chiuso per due anni in una fortezza sempre più separata dal mondo, ad accentuarne gli aspetti messianici e la convinzione di dover assolvere a una missione. Prima però c’è un passaggio importante, secondo la politologa Tatjana Stanowaja: «La svolta è all’inizio del 2020 quando Putin modifica la Costituzione e si rende di fatto presidente a vita: può stravolgere le regole a suo piacimento e questo cambia la sua psicologia e il modo in cui si rapporta ai suoi avversari interni ed esterni, lo fa sentire onnipotente». Putin identifica il destino della Russia con quello suo personale. La Storia è diventata per lui un’ossessione. Non dovrà più succedere che un presidente americano, come fu il caso di Barack Obama, si permetta di definire la Russia «una potenza regionale». Aprire la crisi in Ucraina, dice lo storico Reinhard Krumm, «è la catarsi geopolitica per riordinare i rapporti della Russia con il mondo», qualunque sia il prezzo.
Putin pensa ormai da monarca assoluto e identifica il destino della Russia con quello della sua persona. E adotta una narrazione sempre più irragionevole: «Considera la Russia come un’entità metafisica, un essere eterno che per ragioni storiche è superiore a un’entità artificiale costruita da Lenin, che è l’Ucraina», spiega Kurt Kister, ex direttore della Süddeutsche Zeitung.
Il problema è che è difficile, forse impossibile, negoziare con qualcuno che pensa in termini metafisici. Chiunque sia andato a Mosca nelle ultime settimane si è trovato davanti un leader aggressivo, emotivo e soprattutto latore di una dimensione parallela e lontana dalla realtà. Non potrà più lamentarsi di non essere preso sul serio, Vladimir Putin. Ma come lui stesso scrisse in una dedica al regista Nikita Mikhalkov, sotto una foto che lo ritraeva nell’atto di saldare un conto al ristorante: «Bisogna pagare per tutto nella vita, Nikita».