Corriere della Sera, 27 febbraio 2022
Un po’ di vergogna per le parole a vanvera
Prima di avere un significato, le parole hanno un peso. Dopo che i carrarmati della Russia hanno invaso l’Ucraina, dopo che la crudeltà di Vladimir Putin si è accanita contro un governo democraticamente eletto, dopo le drammatiche immagini che arrivano da Kiev, alcune parole assumono un altro peso.
L’espressione «dittatura sanitaria», usata qui da noi con estrema faciloneria, quando si scontra con la vera dittatura (in Russia, chi manifesta contro la guerra in Ucraina rischia la prigione e una condanna) stride di goffaggine. Nell’aria si agitano parole di spavento che ci aggrediscono, che ci disgregano: «persecuzione», «complotto», «sequestro di persone». Poi basta vedere i video in cui il presidente Zelensky si commuove cercando di metter in salvo la sua piccola figlia perché quelle stesse parole diventino figlie di un incivile buio.
Le ideologie hanno screditato tante parole necessarie che oggi è diventato difficile parlare senza sembrare complici di qualcosa di basso e vile. Invece di adeguare noi stessi al peso di una parola, preferiamo adeguare la parola a quel poco che noi siamo.
Così, di fronte alla tragedia, ai morti, ai palazzi sventrati, alla deriva totalitaria del putinismo, un senso di vergogna dovrebbe almeno aiutarci a rimettere certe parole al loro posto.