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 2022  gennaio 28 Venerdì calendario

Intervista a Paul Thomas Anderson - su "Licorice Pizza"



LOS ANGELES. Ci sono registi il cui lavoro è strettamente legato a geografie specifiche, luoghi amati da cui traggono ispirazione per tutta la loro carriera. Cosa sarebbero Allen e Scorsese senza New York? O Alexander Payne senza Nebraska e, più in generale, il Midwest? Allo stesso modo è difficile immaginare i film del pluripremiato (Leone d’Argento, Orso d’Oro, miglior regista a Cannes, otto  nomination agli Oscar) Paul Thomas Anderson senza avere come sfondo Los Angeles, la Città degli Angeli. Già immortalata in Boogie Nights. L’altra Hollywood, Magnolia, Ubriaco d’Amore, Vizio di Forma, e ora teatro di Licorice Pizza, il suo nono film in arrivo nei cinema il 17 marzo dopo la cerimonia degli Oscar in cui si prevede farà incetta di nomination e statuette. Il film racconta la San Fernando Valley degli anni Settanta, luogo dell’infanzia di Anderson e sua attuale residenza, attraverso le vicissitudini (amorose e non) dei due protagonisti: una fantastica Alana Haim e Gabe Hoffman, figlio del defunto Philip Seymour Hoffman.

Com’è nata la storia di Licorice Pizza?
 "L’idea è nata anni fa quando, camminando per le strade del sobborgo di Tarzana (dove vive con la moglie, l’attrice e comica Maya Rudolph, e i loro quattro figli, ndr) ho notato dei ragazzi di una scuola che si preparavano per la foto annuale. Scherzavano con la fotografa, una ragazza giovane ma più grande di loro, cercando di attirare la sua attenzione. Ho pensato a cosa sarebbe successo se questa ragazza avesse accettato di iniziare una relazione platonica con un ragazzo più giovane di lei, e come avrebbe potuto svilupparsi questo rapporto. Mi è sembrata una premessa per un film divertente. Poi ho scoperto che un mio amico, Gary Goetzman, cresciuto anche lui nella Valley, aveva delle storie incredibili sul suo passato di attore bambino e ho combinato le due storie".

Perché questo amore per la San Fernando Valley?
"Mi ci sento a casa, tutto è familiare: odori, luci, ritmo di vita. È un luogo di ricordi dove vedi cose strane, tipo le decorazioni natalizie con la neve finta anche se a dicembre ci sono 30 gradi. È decisamente un posto bizzarro ma proprio per questo  per me è perfettamente normale: è casa mia".

Che cosa ha di unico quest’ambientazione?
"La vicinanza con Hollywood e il mondo del cinema. Non è un posto elegante e sofisticato come Beverly Hills o Bel Air, anzi è proprio l’opposto. Un sobborgo pieno di smog, caldissimo, umido, dove abita la classe operaia, e dove camminando non vai da nessuna parte. Senza macchina sei morto. Quando vidi American Graffiti per la prima volta, pensai che fosse girato nella Valley e non a Modesto, perché era esattamente l’ambiente dov’ero cresciuto, il rumore dei tubi di scappamento,  il costante salire e scendere dalle automobili sempre in movimento,  le avventure con gli amici, la ricerca di qualcosa che ti dia l’impressione di diventare adulto, sopratutto la speranza di poterti innamorare per la prima volta. Ed è esattamente il feeling che ho voluto dare a questo film".

Come nasce il titolo?
"Licorice Pizza era il nome di una piccola catena californiana di negozi di dischi negli anni Settanta-Ottanta. Il titolo del film non ha nulla a che vedere con i negozi, ma sono due parole che mi piacciono e suonano bene insieme, catturano lo spirito del film".

Che è ambientato nel 1973. Come ha ricreato l’atmosfera di quegli anni?
"Per me è sempre importante rimanere fedele allo spirito del momento storico in cui viene raccontata la storia. Spesso vedo film ambientati nel passato ma che vengono girati attraverso un filtro moderno, e trovo che perdano fascino. Per Licorice Pizza ho voluto girare con lampade ad arco, un tipo di illuminazione - usata agli albori del cinema - che oggi è diventata obsoleta perché non è molto pratica su un set. La qualità della luce è assolutamente incredibile e particolare. Usare queste luci è stato come svegliare una macchina vintage che ha dormito negli ultimi 40 anni. Non è stato facile trovare persone che fossero in grado di usarle, ma il risultato è stato magico. Cosi come girarlo in 35 mm, una gioia".

Come ha scoperto Alana Haim?
"Storia assurda: dieci anni fa mi sono innamorato di Forever, una canzone che sentivo sempre alla radio. Ho scoperto che era di un gruppo locale, le Haim, composto da Alana, Este e Danielle, le tre sorelle Haim. Volevo conoscerle e le ho invitate a cena, scoprendo poi che la loro madre era stata la mia insegnante di arte alle elementari. Era destino che dovessi lavorare con Alana, il vero prototipo della Valley girl, visto che anche lei è cresciuta da queste parti. Alana vi sconvolgerà".


A proposito di musica, le sue colonna sonore sono sempre importantissime. Come ha scelto le canzoni di questo film?
"Volevo assolutamente David Bowie e Paul McCartney, in genere scelgo i pezzi che i miei protagonisti potrebbero ascoltare alla radio durante quel periodo. Ma a volte faccio delle eccezioni, come per la canzone di Suzi Quatro che è del 1975: mi piaceva e la trovavo appropriata per quel momento. La prima volta che ho visto Arancia meccanica ho capito il potere di associare la musica alle immagini, quando Alex canta Singin’ in the Rain in quella scena violenta e terrificante, ho scoperto che potevo usare la musica per creare lo stato d’animo che volevo".

Un film che ha influenzato la sua educazione da regista?
"Da bambino vidi Incontri ravvicinati del terzo tipo, certo il film è diretto da un maestro come Steven Spielberg e la musica è di John Williams, ci sono gli effetti speciali così nuovi all’epoca, ma per me l’influenza maggiore è stata la performance di Richard Dreyfuss. Il suo personaggio all’inizio del film è un po’ immaturo, nonostante le responsabilità di padre, e poi diventa completamente psicotico, ossessionato da questi visioni, e per scoprire quello che c’è nella sua testa sacrifica tutto: la sua famiglia, il suo futuro. Ogni volta che guardo quel film mi chiedo come possa continuare a migliorare con il passare degli anni!".

È il motivo per cui i suoi personaggi hanno sempre dei difetti?
"Difetti e imperfezioni creano personaggi sfaccettati e più complessi, sopratutto se vogliamo costruire situazioni comiche. Tutti i miei film preferiti hanno come protagonisti personaggi che hanno delle mancanze, li trovo molto più interessanti. Per questo credo sia anche importante guardare al passato, alle nostre radici, perché alla fine non possiamo scappare da quello che è accaduto nella nostra storia, dal destino della nostra famiglia. Sembra un po’ un cliché dire che le tue radici di italiano abbiano contribuito a creare la tua personalità, eppure è la realtà. Io sono di origini irlandesi, e avrò sempre questa febbre per la gioia di vivere nel mio sangue. Cerchiamo di fingere di essere qualcosa di più complicato di quello che siamo, ma la realtà è molto più semplice di quella che immaginiamo".

Attori con cui vorrebbe lavorare?
"Il primo sulla lista è Denzel Washington, mi piace la sua potenza come attore e l’integrità come uomo. Mi piacerebbe dirigere anche Olivia Colman, perché può interpretare qualsiasi ruolo. E poi adoro Will Smith. Quando scelgo un attore, lo scelgo per la vita, mi piacerebbe lavorare sempre con tutti gli attori con cui ho girato un film, come Joaquin Phoenix e Daniel Day-Lewis, ma per lui, citando Il Padrino, devo fare un’offerta che non può rifiutare. C’è una quantità sproporzionata di talento rispetto alla qualità di materiale disponibile. Non è facile trovare il progetto giusto".