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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Intervista a Nadia Hashimi - su "Le stelle di Kabul" (Piemme)

«Ho cercato di raccontare come un Paese che attirava viaggiatori e sognatori sia precipitato in decenni di guerre e disordini». Nadia Hashimi è nata negli Usa da genitori afghani. Nel suo ultimo romanzo, Le stelle di Kabul, che uscirà per Piemme a marzo, narra la storia di una bambina, Sitara Zamani, che sopravvive al colpo di stato del 1978 e riesce a scappare negli Usa dove diventa un’affermata chirurga. Ma il passato continua a inseguirla. 

Che cosa era per lei l’Afghanistan da bambina?
«I miei genitori mi raccontavano della loro infanzia, feste di famiglia, aquiloni e biciclette, dispetti tra fratelli. Erano riluttanti a parlare della guerra, sebbene storie sul razzo che ha mancato di poco la stanza dei bambini, o di quelli che sono riusciti a scappare, sono diventate parte del nostro folclore. Storia e politica hanno fatto parte da sempre delle nostre conversazioni».

La sua famiglia è emigrata negli anni 70 in Usa per studiare. Lei è stata in Afghanistan per la prima volta nel 2003. Che cosa si aspettava? Cosa ha trovato?
«Sono cresciuta sentendomi connessa  spiritualmente al Paese in modo profondo, ma avevo il desiderio di farlo a livello fisico. Il viaggio con i miei genitori nel 2003 è stato bellissimo e al tempo stesso mi ha spezzato il cuore. Ci siamo riuniti con la famiglia e ho trovato le lettere e le foto che i miei avevano spedito negli anni conservate in un baule polveroso. Ho visitato scuole dove gli occhi dei bambini sprizzavano dalla voglia di fare lezione e reparti di maternità strapieni di gestanti. Non era l’Afghanistan che i miei avevano lasciato a 20 anni né quello dei talebani. Così come l’Afghanistan di oggi non è quello del 2001. Sarà duro per il nuovo regime imporre le loro norme oscurantiste agli afghani abituati alla luce».

Lei scrive che il Paese è sopravvissuto all’imperialismo, al colonialismo, alla Guerra Fredda. Che cosa ha provato lo scorso agosto con il ritorno dei talebani?
«Il mio primo romanzo parla di una ragazza che vive in Afghanistan dopo il 2001. La velocità con cui i talebani sono stati cacciati allora ci ha ingannato. Certo, le donne non erano più prigioniere sotto un regime arcaico, ma loro non erano stati eliminati. Vederli attraversare Kabul armati ed esultanti lo scorso agosto mi ha sbalordito. Per le donne le cose hanno iniziato a cambiare ancor prima che aprissero bocca. La gente ridipingeva i muri esterni dei negozi cancellando le facce delle donne che, assieme alle bambine, sono sparite dalla vita pubblica. Attiviste, insegnanti, giornaliste, politiche che hanno contribuito a ricostruire il Paese hanno perso i loro diritti, compreso quello di lavorare. Ma il ritorno dei talebani ha avuto un impatto devastante non solo su di loro. Soffrono tutti. Non c’è lavoro e si fa fatica a sopravvivere. Gli insegnanti non vengono pagati. Il sistema sanitario è totalmente inadeguato. Secondo il programma di sviluppo dell’Onu, l’Afghanistan cadrà presto in uno stato di “povertà universale”. In questo sfacelo la maggior parte delle persone non spreca tempo e fiato per i diritti delle donne, che sono diventati un lusso».

Anche lei, come Sitara nel romanzo, ha amici e parenti che hanno cercato di scappare?
«Come tanti afghani ho passato molto tempo a riempire moduli sperando di facilitare l’esodo di parenti, conoscenti e persino estranei. Alcuni erano giornalisti, esponenti della società civile o madri terrorizzate dal destino brutale che si prospettava per le loro figlie. Pochi ce l’hanno fatta. Gli altri sono rimasti e alcuni si sono nascosti. Nei mesi scorsi ho lavorato con persone e famiglie che sono riuscite a raggiungere gli Stati Uniti. Le loro ferite sono profonde. Anche in una terra relativamente sicura soffrono per il loro Paese e tutti quelli che si sono lasciati dietro».

Sitara porta con sé un anello e delle foto. E i suoi?
«Non molto. Quando andarono via non potevano prevedere che non sarebbero più tornati. Avevano delle foto e un tessuto ricamato che hanno usato per il loro matrimonio. Nel tempo abbiamo accumulato oggetti portati da famiglie emigrate tra cui opere di calligrafia e di poesia del mio bisnonno». 

Quali tradizioni avete mantenuto?
«Tante. Di recente abbiamo festeggiato Yalda,  il solstizio d’inverno. La notte più lunga dell’anno gli afghani stanno alzati tutta la notte a leggere poesie e mangiare melagrane. La nostra cucina profumava di cumino, aglio e menta. Le tradizioni abbracciano le generazioni e le distanze geografiche».