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 2022  febbraio 26 Sabato calendario

Furio Colombo ricorda Pasolini

Per capire l’importanza di Pasolini e l’urto emozionale che suscitò la sua morte non c’è di meglio che guardare al Paese che con libera e profetica immaginazione ha raccontato. A questa conclusione giunge Furio Colombo che a Pasolini fece l’ultima intervista, alcune ore prima che morisse.
Come hai appreso della sua morte?
«Da una telefonata che Michelangelo Antonioni mi fece praticamente all’alba. Mi disse: “Furio, è morto Pier Paolo”. All’inizio non capii bene. “È morto Pasolini, Furio, è morto pare massacrato. Ti passo a prendere, accompagnami sul luogo dell’accaduto”. Ero incredulo. Giunse quasi subito sotto casa, allora abitavo in via Gregoriana. Nell’appartamento accanto viveva Francesco Rosi, pensai di avvertirlo. Ma era fuori per lavoro. Scesi in strada. Michelangelo aspettava alla guida della sua Alfa Romeo, vidi sul sedile posteriore Moravia. Sembrava impietrito dal dolore. Partimmo in direzione Ostia».
Che vi diceste in macchina?
«Chiesi ad Antonioni come l’avesse saputo. Poi più nulla, salvo l’angoscia e il silenzio. Arrivammo in un tempo brevissimo. Nell’umido freddo autunnale Ostia mi sembrò irreale: le ultime luci ancora accese, le strade deserte e noi alla ricerca dell’obitorio dove avevano trasferito il corpo di Pasolini. Arrivammo che stavano eseguendo l’autopsia. Attendemmo. Il medico legale ci disse solo del martirio cui quel corpo era stato sottoposto. Fu una mattinata di dolore e impotenza».
Il giorno prima tu lo incontrasti per un’intervista.
«Concordammo di vederci a casa sua. Lo raggiunsi nel pomeriggio all’Eur dove abitava. Non ero mai stato in quella casa».
Lo avevi conosciuto in che circostanza?
«La prima che me ne parlò, quando ero già tornato dagli Stati Uniti, fu Silvana Ottieri che, oltre ad essere la moglie di Ottiero, lo scrittore, era la sorella di Fabio Mauri, mio grande amico. Fu lei a farmelo conoscere.
Ma solo attraverso Moravia e Dacia Maraini presi a frequentarlo. Capitava che ci vedessimo a cena a Roma o l’estate al mare. Mi colpiva la sua compostezza e la discrezione con cui discuteva. Aveva un voce sottile, dolce, uniforme. Senza sbalzi di tono. Ricordo che mi piacque immediatamente il suo suono un po’ cantilenante».
Di che anni parli?
«La prima metà degli anni Sessanta. Avevo lasciato l’America dopo che si era conclusa l’esperienza con Olivetti. Adriano morì nel 1960. Restai ancora per un po’ a New York e poi mi trasferii a Roma per lavorare in Rai e alla Stampa. Una delle prima volte che vidi Pasolini fu a Fregene dove avevamo preso una casa accanto a quella di Moravia che sembrava un bunker. Poi Alberto e Dacia si trasferirono a Sabaudia e anche mia moglie Alice e io prendemmo una casa vicino alla loro. Qui la presenza estiva di Pier Paolo si intensificò. A volte arrivava all’improvviso senza neppure avvertire».
Eravate perciò molto amici?
«Non era un’amicizia stretta o intima, se è questo che immagini. Piuttosto un legame nel quale prevalevano la curiosità e l’ammirazione per un personaggio davvero unico».
Avvertivi anche un senso di disagio?
«Non era mai intimidente. Al contrario coglievo in lui la gentile disponibilità all’ascolto dell’altro. Non l’ho mai sentito sovrastare i toni di una conversazione e puoi immaginare quanto certi temi culturali fossero per lui sensibili».
Torniamo al tuo incontro del novembre del 1975. È un periodo strano per lui.
«Strano in che senso?».
Alcune testimonianze riferiscono che dietro l’autorevolezza e il riconoscimento che si era guadagnato come intellettuale e artista si nascondesse un uomo disperato.
«Lo tormentava che le sue analisi lucidissime e profetiche non avessero sbocchi. Una conclusione desolante per un Paese che vedeva smarrito, perso, corrotto».
Senza speranza.
«Come se la speranza non potesse più arrivare dal futuro ma da un impossibile passato».
Questa visione disperata si condensa in “Salò-Sade”, il film che finisce di girare pochi giorni prima della morte.
«Vidi il film in una saletta privata con un montaggio forse neppure definitivo. Eravamo in quattro o cinque. Ricordo solo che insieme a me c’era Moravia e forse Dacia. Nel corso della proiezione sentivo montare prima lo sgomento, poi la ripugnanza e infine come un senso di ammirazione per il coraggio disperato con cui aveva tentato di raccontare l’irraccontabile. Quando uscimmo dalla saletta pesava l’imbarazzo per dover parlare di qualcosa di inclassificabile. Moravia taceva, io tacevo. Poi devo aver detto qualcosa riferito alla mia infanzia».
Cosa, lo ricordi?
«Dissi che quell’orrore e quella crudeltà esibite nel film io li avevo vissuti un giorno durante la guerra nel paese in cui ci rifugiammo con la mia famiglia. Una mattina andando a scuola passai accanto a cinque corpi che giacevano accanto a un muro. Gente inerme, forse partigiani, che i nazifascisti avevano fucilato. E ho pensato che lo scopo ultimo di Salò-Sade fosse raccontare lo stesso arbitrio assoluto che il potere, quando diventa osceno, esercita sui corpi».
È incredibile come lo stesso corpo di Pasolini, massacrato e irriconoscibile, sia la testimonianza involontaria di qualcosa che egli ha “vivisezionato” negli altri.
«La sua visione finale è terribile ma inevitabile, proprio per il suo carattere profetico».
Intendi dire che la sua stessa morte possa essere interpretata come una sorta di “sacrificio”?
«Non mi spingerei fino a questo punto, anche perché sarebbe un modo di intendere quella morte come un tentativo di immolarsi. Ma in nome di cosa, verrebbe allora da chiedersi. Dico più semplicemente che il suo corpo ritrovato è la metafora tragica di un destino scritto sulla carne e vissuto nella storia. Due facce della stessa medaglia».
Cioè?
«Da un lato la sensazione di sentirsi all’inferno.
Dall’altro la certezza che tutti fossimo ormai in pericolo. “Siamo tutti in pericolo” fu il titolo che, alla fine della nostra conversazione, volle dare all’intervista, quasi che quell’avvertimento riassumesse ciò a cui eravamo esposti».
Era convinto che l’intero sistema fosse fallito.
«Non c’erano più coordinate ideologiche per orientarsi. Pensava questo. Pensava di essere il solo a crederlo e che pagava un prezzo per quello che faceva. Un prezzo che lo aveva fatto scendere all’inferno, appunto».
Pensi che alludesse anche alla sua omosessualità?
«Non me ne ha mai parlato».
Però tutti gli amici sapevano. Lui finiva di cenare e spesso saliva sulla sua automobile e cominciava la sua vita notturna. Ritieni che in questa doppia vita fosse psicologicamente scisso?
«Non mi avventurerei in analisi sul suo subconscio. E comunque a me non dava l’impressione di una persona scissa. Semmai una persona sola, capace tuttavia di tenerezza. A Sabaudia capitava che prendesse tra le braccia Daria, la figlia di Alice e mia. Vi leggevo affetto, perfino una forma di gratitudine, come se attraverso l’infanzia cogliesse il momento irripetibile dell’autenticità».
Tu in qualche modo avevi fatto parte del “Gruppo 63” che non è mai stato indulgente verso Pasolini. Che atteggiamento avevi verso le sue tesi culturali?
«Ti dico prima che atteggiamento aveva lui. Se ne fregava dei giudizi di Sanguineti, di Balestrini, di Guglielmi. Quanto a me, avevo aderito al “Gruppo 63” con il mio ritorno in Italia. Dopotutto, l’esperienza vissuta a New York mi aveva aperto allo sperimentalismo artistico e letterario. Mi sembrava abbastanza naturale sposare certe scelte letterarie. Ma senza la dogmaticità che avvertivo in alcuni esponenti.
E poi, a parte me che amavo certe sue cose, c’era Arbasino che coglieva in Pasolini un’alta qualità letteraria».
Dovresti citare il tuo amico Eco.
«Certo».
Non era tenero nei riguardi di Pasolini.
«Qui va fatta una distinzione. Umberto amava la poesia di Pasolini, ma non sopportava la visione arcaica del mondo. Lo infastidiva la condanna del progresso. A proposito della poesia mi fai venire in mente un episodio».
Racconta.
«Avevo appena comprato una Topolino di seconda mano e invitai Eco per una breve gita tra i Grigioni. Beh, per tutto il tempo tenne tra le mani Le ceneri di Gramsci.
E proprio sulla poesia di Pasolini l’ho sentito pronunciare parole di apprezzamento».
Però ci fu la polemica, proprio pochi mesi prima che Pasolini morisse, in cui Eco demoliva la sua posizione contro l’aborto.
«Ricordo l’articolo che Umberto scrisse pochi giorni dopo la tragedia. Nel rievocare quella polemica sentiva al tempo stesso il bisogno di prenderne le distanze.
Umberto parlò di un “sentimento di colpa” che quello scontro aveva provocato in lui. E al tempo stesso il bisogno di capire meglio il ruolo che questo intellettuale, vocato all’emarginazione, avesse nella società italiana. Un poeta, così scrisse, più vicino a Rimbaud che a D’Annunzio».
Sulla morte di Pasolini si è scritto e congetturato tantissimo. Che idea ti sei fatta?
«La nostra vita è fatta di eventi inspiegabili e tanto più inspiegabile può apparire la morte, soprattutto se quella morte avviene come è avvenuta in Pasolini».
Anche tu pensi al complotto, alla congiura del potere?
«Penso semplicemente che una risposta in un senso o nell’altro non si possa dare. Non credo alle teorie del complotto. Ma credo che la dinamica di un evento, anche di un omicidio, si regga su di una struttura ingegneristica».
Cosa vuoi dire?
«Voglio dire che quella struttura c’è, ma è invisibile.
Come l’armatura di un pilone di cemento. Resta dunque il mistero. Ma perché sorprendersi? Pensa a quanti delitti famosi sono ancora irrisolti in America: da JFK a Martin Luther King a Bob Kennedy. E pensa a quante storie criminose italiane sono restate senza risposta. Io mi fermo qui, c’era quel famoso articolo che Pier Paolo scrisse un anno prima di morire, dal titolo “Che cos’è questo golpe”, iniziava così: “Io so, ma non ho le prove”».