Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  febbraio 26 Sabato calendario

Pasolini censurato

Salò o le 120 giornate di Sodoma è l’ultimo film di Pasolini. Girato nell’anno della sua morte, uscito postumo il 10 gennaio 1976, è da molti considerato, a torto o a ragione, il suo irriducibile testamento. Sconvolgente e funereo, geometria perfetta di crudeltà sadiana in cornice dantesca, la Commissione di censura lo sequestra per le «immagini aberranti e ripugnanti di perversioni sessuali». Il produttore Grimaldi ricorre, gli intellettuali protestano, la censura viene revocata perché «lo spettacolo suscita soltanto disgusto» ma il sesso «non assume carattere di intenzionale ed eccitante allusione alla lussuria».
Sequestri e dissequestri, diagnosi avventate ( Musatti), sfide intellettuali ( Calvino vs Moravia), Sciascia che chiude gli occhi cercando un buio fisico da contrapporre a quello morale che erompe dallo schermo, Barthes che non lo ama perché «Sade non è figurabile» e il fantasma può essere scritto ma non descritto, ma gli riconosce la capacità di metterci a disagio, di impedirci il riscatto. Col tempo prevalgono gli osanna. Soldati lo celebra su La Stampa: è «il capolavoro di Pasolini», «non soltanto un film tragico e magico ma un’opera unica che resterà nella storia del cinema mondiale».
Ci sono un Antinferno e tre Gironi di efferatezze: delle Manie, della Merda e del Sangue. Motore dell’abominio ambientato nella Repubblica Sociale Italiana sono quattro Signori, «ontologici e perciò arbitrari», dice Pasolini: un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore. Incaricano le SS e i soldati repubblichini del rapimento di un gruppo di ragazze e ragazzi che verranno suddivisi in quattro squadre: vittime, soldati, collaborazionisti, servitù. Affiancati da quattro megere, ex prostitute, mettono in scena una dittatura sessuale con codici ossessivi e mortiferi di ubbidienza, umiliazione, controllo. «Non ho aggiunto una parola a ciò che dicono i personaggi di Sade», dice Pasolini. Intenzionato per sua esplicita ammissione a portarci al limite della sopportabilità, ci mostra, anzi ci impone senza lasciarci possibilità di fuga, come il potere del consumismo manipoli, umili e vittimizzi i suoi sudditi, talora con il loro spento consenso. Come l’autoritarismo “fascista” (e televisivo) non ammetta repliche e metta in scena uno spettacolo ripetitivo che aggredisce il desiderio delle vittime fino a mortificarlo in merce. Pasolini è in lutto per il mondo perduto, in allarme per il mondo presente, disperato dall’irreversibilità diquesta trasformazione.
Ancora una volta il corpo è al centro del suo pensiero: esaltato nella Trilogia della vita per l’innocenza sensuale e la capacità d’irrisione innocente del potere, qui, dopo l’abiura, viene mostrato attraverso la vittimizzazione sadomasochista di una sessualità obbligata e brutale. Un corpo che Marx direbbe sfruttato, ridotto a cosa, con il sesso «chiamato a svolgere un ruolo metaforico orribile». A confronto con Arancia meccanica di Kubrick di tre anni prima qui siamo davvero all’inferno, l’inferno “anarchico” del potere, ed è questo il punto a cui Pasolini tiene di più. Perché se l’anarchia degli sfruttati è disperata, irrealizzata e un po’ campata in aria, l’anarchia del potere si realizza concretamente, si fa codice e prassi. Si ritualizza: «nulla è più anarchico del potere, il potere fa ciò che vuole, e in ciò è completamente arbitrario spinto da sue necessità economiche che sfuggono alla logica comune. Ognuno odia il potere che subisce, quindi io odio con particolare veemenza questo potere che subisco: questo del 1975».
I gerarchi ridono, gridano, le megere narrano, si sguaiano, e in questa atroce farsa di piombo qualcuno a un certo punto invano si ribella. Due corpi provano ad amarsi “davvero”, una giovane invoca «Dio, perché ci hai abbandonati?», un giovane alza il pugno e muore, la pianista si suicida. Salò è anche la fine della speranza.
La regia è gelida, appunto come un cadavere: serve a inchiodare la nostra immaginazione ai soli fatti esposti allo sguardo. Abbondano infatti le finestre, i binocoli e gli occhi cavati. Trent’anni prima, in una scena terribile di Un chien andalou, Buñuel affilava un rasoio e incideva il bulbo oculare di una donna: rivoluzione visiva surrealista, occhio squarciato dello spettatore perché veda ciò che non aveva mai visto. Quando uscì Salò avevo 15 anni. Il nonno ritagliava gli articoli di Pasolini dal Corriere e li faceva leggere a noi nipoti. L’ho visto a 20 anni e poi ( a parte le scene nell’importante documentario del 2006 di Giuseppe Bertolucci sul set di Salò) una seconda volta nel 2015, per fedeltà ai restauratori del Cinema ritrovato. Lo ricordavo alla perfezione, un’aggressione visiva ancora terribilmente incisa sulla mia retina: ed è questo che fa di Salò la sua grandezza e la sua dannazione, al punto da non poter essere rimosso anche da chi non l’ha voluto vedere.