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 2022  febbraio 26 Sabato calendario

Cosa sappiamo della morte di Pasolini

Dall’assassinio di Pier Paolo Pasolini sono nate due storie. La prima è quella consacrata negli atti giudiziari: un amore mercenario omosessuale finito tragicamente. Il colpevole è un pischello di periferia, avido, magretto e scaltro. La vittima un uomo, con le sue fragilità e le sue contraddizioni. La seconda storia allarga lo scenario a moventi che vanno dal tentativo di rapina sfociato in tragedia al complotto politico, passando per la lezione impartita al gay da un gruppo di balordi e l’estorsione degenerata. I colpevoli sono ragazzi di vita, coatti, oppure giovanissimi neofascisti dalla vocazione criminale, e fa capolino l’occhio, complice o distratto, degli eterni servizi deviati. E la vittima è il poeta controverso, il regista scandaloso, l’intellettuale scomodo. Solo per un breve tratto le due storie procedono parallele, e nelle carte processuali si leggono fatti accertati.
Alle 23 circa dell’1 novembre 1975 Pasolini siede a un tavolo del Biondo Tevere, una trattoria sulla via Ostiense. È una serata fredda, la notte sarà ancora peggiore. Con lui c’è Pino Pelosi, diciassette anni, detto “Pino la Rana”. Il poeta non cena, il ragazzo ha fame: mangia, sappiamo, spaghetti aglio, olio e peperoncino. Lasciano il locale alle 23.30, diretti in un luogo appartato, l’Idroscalo di Ostia, che raggiungono intorno alla mezzanotte. Da questo momento in avanti, le due storie si separano. La verità processuale si affida al racconto di Pelosi, l’altra storia combatte caparbiamente per smentirla. Su un solo altro particolare c’è coincidenza: all’1.30 Pelosi viene fermato sul lungomare di Ostia da una pattuglia dei carabinieri. È al volante dell’Alfa 2000 GT del poeta. Quasi subito ammette l’omicidio. Ma che cosa racconta Pelosi? Pasolini pretende prestazioni sessuali che il ragazzo non è disposto a concedere. Il poeta diventa violento e lo aggredisce con un bastone. Pino scappa, cade, viene raggiunto, lotta, afferra una tavoletta che sta per terra e lo percuote, la lotta continua finché il ragazzo non prende il sopravvento. Sale sull’Alfa, sconvolto, e si dà alla fuga: probabilmente senza rendersene conto, passa sopra al corpo di Pasolini. Il Tribunale dei Minori prende solo in parte per buona questa versione. La sentenza del 26 aprile 1976 conclude per un omicidio in concorso con ignoti. C’era sicuramente almeno un altro soggetto. Doveva esserci: è inverosimile che in una colluttazione così feroce, come quella descritta da Pelosi, solo uno dei contendenti abbia riportato rilevanti lesioni, e l’altro ne sia uscito praticamente indenne. «Eppure Pasolini» scrivono i giudici «non era un vecchio cadente incapace di organizzare una qualche difesa; era agile, aveva un fisico asciutto, praticava lo sport, giocava ancora a calcio in partite regolari».
L’appello ribalta questa prospettiva, e così la Cassazione: Pelosi agì da solo. Ma la seconda storia, quella alternativa, è già nata, proprio mentre Moravia, ai funerali, davanti a una folla sbigottita (in quanti ci rendemmo subito conto di che grande perdita ci era stata inferta!) pronuncia quel suo commovente discorso: abbiamo perso prima di tutto un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti al mondo. Oriana Fallaci e Furio Colombo raccolgono testimonianze inquietanti. Lo hanno circondato e massacrato. Lui scappava e gridava “mamma”. Ma lo scenario?
Un’ora prima di agganciare Pino la Rana alla stazione Termini, Pasolini aveva cenato al “Pommidoro” a San Lorenzo. Era ombroso, cupo, di pessimo umore. Qualcosa lo turbava nel profondo. Lo si sarebbe appreso anni dopo: qualcuno aveva rubato le “pizze” di Salò, il suo terribile, cupissimo ultimo film che lui non avrebbe fatto in tempo a vedere in sala. Pasolini sarebbe stato attirato in un agguato con il pretesto di recuperarle. Un ricatto. Pelosi sarebbe stato l’esca: i due non si erano incontrati casualmente quella notte, ma si conoscevano da qualche mese. Pelosi è morto nel 2017, e più volte ha cambiato versione, ammettendo ripetutamente la presenza di altri soggetti e, in sostanza, l’agguato. Ad uccidere Pasolini sarebbero stati alcuni neofascisti, fra i quali i fratelli Borsellino (ormai morti) e tal Pinna, forse sopravvissuto e forse no. Altre fonti hanno indicato Johnny lo Zingaro, allora quindicenne, e altre ancora elementi della Banda della Magliana: che nel ’75, però, ancora non sapeva di chiamarsi in quel modo. Un’altra pista alternativa conduce all’affare Petrolio: nel romanzo postumo che Pasolini stava scrivendo sarebbero state contenute verità scottanti sull’Italia delle stragi, tali da determinare la soppressione di un capitolo “incriminato” e l’uccisione dell’autore. Apparati occulti sarebbero stati, se non mandanti, conniventi. Altri fatti di storia patria, a partire dall’aggressione a Franca Rame, rendono niente affatto peregrina l’ipotesi di una spedizione punitiva – quale ne sia il movente – di marca neofascista: si era, non dimentichiamo, negli anni Settanta del golpe e delle stragi, e Pasolini era l’autore del celebre Io so. Ma alla fine, ogni inchiesta è stata archiviata, ed è difficile pensare che lo strumento giudiziario possa ancora produrre, a quasi mezzo secolo dal novembre ’75, un qualche esito. Si sono occupati di questo delitto, in libri e film mossi dal nobile intento della verità, Carlo Lucarelli, Gianni Borgna, Marco Tullio Giordana e David Grieco. Da ultimo, Giovanni Giovannetti, in un volume poderoso che si può in qualche passaggio non condividere, ma che è fondamentale conoscere ( Malastoria – L’Italia ai tempi di Cefis e Pasolini, Effigie).
C’è chi dice che cercare a tutti i costi uno scenario più ampio serva a giustificare una morte che suonerebbe altrimenti non comparabile alla grandezza della vittima: Pasolini era una figura troppo cruciale nella nostra vita culturale (e pubblica) per morire ad opera di un Pino la Rana. Ma i materiali per dubitare non mancano, e troppe incongruenze risultano francamente sconcertanti.