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 2022  febbraio 26 Sabato calendario

L’eredità di Pasolini

Pasolini diceva: «Penso a me come a uno che proviene dalla critica»; ma nonostante il suggerimento arrivi da lui, sarebbe una definizione inaccettabile. Bisogna sempre elencare un gran numero di mestieri, o sottopancia: Pasolini ha fatto tutto, era molteplice; e allo stesso tempo era uno, perché ha fatto ogni cosa sempre con un’impronta personale, riconoscibile e inimitabile. Prendiamo il cinema: a un certo punto ha deciso di fare il regista. Aveva un’idea di cinema già in testa, tutta sua, che poi quando è riuscito a mettere in atto, si è rivelato appunto un cinema tutto suo. Contro la volontà e i consigli degli altri: Fellini lo scoraggiò dopo i primi giornalieri di Accattone, Calvino si arrabbiò addirittura, e dopo i primi film gli scrisse «Vittoria è una delle tue poesie più belle», per poi aggiungere: «quando smetti di fare il cinema?».
In realtà, aveva una vitalità intellettuale irrefrenabile che si esprimeva in giornate di lavoro infaticabile; ciò che impressiona, e che deve impressionare oggi, è quanto lavoro riuscisse a consumare ogni giorno, senza mai allentare una tensione profonda, e con un’originalità continuamente spinta al massimo. Bisogna ricordarselo che tutto quello che ci è arrivato da lui è stato il frutto di un’ostinazione quotidiana alla fatica. E a causa della molteplicità, si finiva sempre per fare i conti con lui in qualsiasi direzione. E poi, dopo la sua morte, è stato via via spolpato della complessità e semplificato, forse per approdare a un concetto – “pasoliniano” – che fosse decifrabile.
Invece la molteplicità lo ha reso l’artista e l’essere umano più complesso del Novecento. Basti pensare alle tre definizioni: cattolico, comunista, omosessuale dichiarato (ed era questo il problema: chiunque poteva essere omosessuale, ma nessuno doveva esibirlo). E ognuna di queste definizioni era intollerabile per le altre due: per i cattolici, un comunista omosessuale era inaccettabile; per i comunisti, non solo un cattolico ma anche un omosessuale era inaccettabile; e per gli omosessuali era impossibile accettare la repulsione di cattolici e comunisti – va ricordato che fu espulso dal partito comunista, da giovane a Udine, per “immoralità”, con l’accusa di essere seguace di intellettuali per invertiti come Sartre e Gide; Pasolini invece ha sempre ricambiato con amore (cristiano) mal sopportato, definendo a un certo punto il Partito comunista italiano «un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico».
Ma Pasolini è stato per necessità uno che perdonava sempre. Visto che ha subito 33 processi in cui ha avuto 33 assoluzioni finali. Visto che un benzinaio poteva inventarsi che Pasolini al distributore era vestito di nero e aveva caricato una pistola con un proiettile d’oro. E questa idea di Pasolini era talmente diffusa che Gregoretti la immortalò nel suo episodio di Ro.Go.Pa.G.: Tognazzi torna a casa, apre la porta, trova il figlio che gli spara contro con una pistola giocattolo urlando «pam pam». E Tognazzi: «Chi sei, il bandito Giuliano?». «No, sono Pasolini».
Il motivo di tutto questo era che in teoria Pasolini poteva appartenere a tutti, ma nella pratica non apparteneva a nessuno. Una luce solitaria – come una lucciola appartata. Era un artista e un uomo davvero, e definitivamente, solo. Ed è ancora così. Perché prendeva posizioni totalmente svincolate da ogni altro pensiero intorno; come ha detto Walter Siti, aveva la “parresia”, cioè il coraggio di non tacere niente. Erano tempi diversi – lo si dice sempre, ma era davvero così: non solo ci si poteva dire la verità tra colleghi e amici, ma lo si riteneva un dovere. C’è una recensione esemplare di Moravia su Edipo Re di Pasolini, che stronca brutalmente, dicendo «come ho detto all’autore ieri sera in trattoria». E l’attacco violentissimo di Pasolini a La storia della sua amica Elsa Morante fa male tutte le volte che lo si rilegge, ma allo stesso tempo fa pensare ai doveri che bisognerebbe sentire nel giudicare le opere degli altri: nessuna differenza tra chiacchierate in trattoria e giudizi pubblici; in realtà, è come succede oggi, ma con intenti opposti: nessuna differenza, ma ipocrisie sia in privato sia in pubblico.
Qual è l’eredità intellettuale di Pasolini, quindi? Oltre la sua unicità e la sua solitudine suprema – e oltre la sua opera monumentale, così ampia che per forza di cose si litiga su ciò che ha davvero valore e cosa meno – ha lasciato di sicuro una vocazione pedagogica, ostinata e direi commovente, che ha caratterizzato anche alcuni dialoghi con i lettori. Ma soprattutto, come ultima eredità (lasciando da parte la retorica che suggerisce che sentiva la morte vicina) ha lasciato due opere, una incompiuta e l’altra compiuta, uniche, terribili e nuovissime: Petrolio e Salò. La prima che già così com’è, lontanissima dalla compiutezza, ha le sembianze di un romanzo totalmente innovativo e ha aperto la strada a tutti coloro che hanno avuto e hanno voglia di scavalcare i confini: un libro come un campo da arare in ogni modo e con ogni mezzo, un modo di essere molteplice dentro una sola opera; e un film che fa contorcere, che è un’opera grandiosa e insopportabile. E questo è il segno concreto dell’eredità molto complessa e anche piuttosto problematica; e per nulla riconducibile all’aggettivo “pasoliniano”.
Della sua eredità intellettuale complessa e problematica si può provare a rintracciare l’essenza in un personaggio (se così si può dire) di una sua opera: Il Vangelo secondo Matteo, che probabilmente resta il miglior film mai fatto su Gesù, ma in cui è rintracciabile anche un’idea del Cristo molto vicina alla messa a fuoco del miglior Pasolini.
Per spiegare bene l’idea del Gesù di Pasolini, si possono usare le parole di Simone Weil quando mette a confronto il pensiero di Sant’Agostino e quello di Gesù: Sant’Agostino diceva che se un infedele veste chi è nudo, non compie un atto meritorio, anche se lo compie Dio attraverso di lui; insomma colui che vive fuori dalla chiesa, pur agendo con rettitudine, è come un buon corridore che corra sulla strada sbagliata: più corre e più si allontana dalla verità. Cristo invece ha insegnato esattamente il contrario: egli ha promesso che soltanto l’ultimo giorno avrebbe diviso gli uomini in benedetti e maledetti, a seconda degli atti compiuti (se hanno o meno vestito gli ignudi). Simone Weil conclude che la differenza è che Sant’Agostino intendeva riconoscere i frutti dall’albero, mentre Gesù riconosceva l’albero dai frutti.
Ecco, si può dire: Pasolini è Gesù, ma è stato scambiato per Sant’Agostino. La sua parte più problematica farebbe pensare a Sant’Agostino: perché la premessa pregiudiziale (riconoscere i frutti dall’albero) è un sintomo della reazionarietà. E Pasolini è anche colui che ha cosparso i suoi interventi con posizioni di resistenza assoluta contro ogni forma di progresso. Che oltretutto scrisse un articolo incomprensibile dopo il referendum sul divorzio, dando un’interpretazione negativa di una coesione civile, dicendo che rivelava valori consumistici; oppure disse che non bisognava recitare poesie davanti a una platea proletaria perché si fa «opera di influenza piccolo borghese sul popolo»; o ancora quel pensiero sui napoletani, che vede come una tribù da tutelare dalle corruzioni del mondo. Questa parte più problematica è quella che ha condizionato di più le generazioni successive di intellettuali: si può dire che Pasolini ha lasciato in eredità l’intellettuale di sinistra reazionario, e appresso al mito “pasoliniano” sono arrivate frotte di pensatori restii al futuro, e al presente. Centinaia e migliaia di santagostini convinti senza esitazioni di dover interpretare il ruolo civile di respingere qualsiasi forma nuova o leggera o evolutiva.
Non si può sostenere che lui non ne abbia colpa – ha scritto quelle e tante altre cose discutibili; però, se bisogna combattere contro un’idea semplificata di Pasolini, bisogna combattere contro la solidità dei pregiudizi di chi è sicuro di riconoscere i frutti dall’albero. E Pasolini aveva rappresentato nel Gesù del suo film l’essenza della capacità di attendere fino all’ultimo prima di giudicare, e quindi una formula di speranza incondizionata nell’umanità e nella sua evoluzione – un atteggiamento che più progressista non si può (se non bastasse la continua ricerca di nuove forme di espressione a testimoniarlo).
Ecco. Pasolini, pur avendo formulato pensieri reazionari, non ha mai avuto un atteggiamento reazionario: come Gesù, non è mai partito dall’albero, ma dai frutti. La sua potenza viene dalla capacità di non essere mai condizionato, dal non avere pregiudizi ma solo giudizi – lì dove aveva ragione e lì dove aveva torto, in egual misura: è proprio da questo modo di stare nel mondo che ci arrivano i suoi pensieri più spiazzanti, più potenti, più profondamente condizionanti; e anche quelli che non riusciamo ad accettare. È da qui che arriva la prova della sua complessità. E anche la certezza della sua solitudine.